mercoledì 11 novembre 2009

LA PERDONANZA




LA PERDONANZA

l'indulgenza plenaria istituita da Celestino V

di Carlo Siracusa


Era il 5 luglio del 1294. Papa Niccolò IV era morto già da più di due anni, e da allora non era ancora stato nominato alcun successore. Quel giorno, il Conclave riunitosi a Perugia, designò come nuovo pontefice, il monaco eremita Pietro Angeleri, nativo di Isernia, conosciuto anche come Pietro del Morrone, per aver vissuto diversi anni in una grotta di monte Morrone, nei pressi di Sulmona.

Dopo 55 giorni dalla sua nomina, il 29 agosto del 1294, fu celebrata la solenne cerimonia di investitura nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio in Aquila, fatta erigere anni prima dallo stesso monaco di monte Morrone. Partecipò al vestimento pontificale, una folla immensa, oltre duecentomila persone. Tra questa moltitudine, spiccavano il re Carlo II d’Angiò e suo figlio Carlo Martello, i quali, insieme ai nobili e ai cardinali, capeggiavano il corteo papale che si mosse da Sulmona a L'Aquila.

Pietro Angeleri, divenne così Papa Celestino V, prendendo nome dall'ordine dei monaci Celestini, da lui stesso fondato. Il suo pontificato fu brevissimo, durò circa quattro mesi, perché nel dicembre dello stesso anno si dimise, tornando alla vita eremitica, divenendo un caso di per sé unico. Pare infatti che si tratti dell'unico papa, nella storia della chiesa cattolica, a dare le dimissioni, a parte Benedetto IX e Gregorio VI, che furono casi particolari, in quanto: il primo, dopo essersi dimesso, ritornò successivamente al potere, per poi rivendere il pontificato a Gregorio VI. Quest'ultimo, a sua volta, essendo stato accusato di simonia e consapevole della propria colpa, lasciò la “poltrona pontificale” che aveva acquistato a prezzo, dando le proprie dimissioni.

Per quanto attiene al pontificato di Celestino V, ciò che lo distinse fu la concessione di un'indulgenza plenaria universale, nel giorno della sua incoronazione papale, con la Bolla “Inter sanctorum solemnia”, successivamente denominata: “Perdonanza”, istituita a L'Aquila il 29 settembre del 1294, esattamente un mese dopo dalla sua elezione. Attraverso l'emanazione di una Bolla, rendeva possibile l'indulgenza a chiunque entrasse nella basilica di Collemaggio tra le sere del 28 e 29 agosto di ogni anno, confessando i propri peccati e dichiarandosi sinceramente pentito. Il rito che istituì Celestino V, era un vero e proprio Giubileo, aperto agli Aquilani e a tutto il resto del mondo. Chiunque, poteva ricevere il perdono, approfittando di questo speciale evento che, da allora si ripete ogni anno, da 715 anni.

Prima e dopo l'istituzione delle indulgenze

Nello sviluppo storico della cristianità, già nel VI secolo erano in uso le redemptiones, delle opere di fede, azioni caritatevoli o pellegrinaggi a Roma, a S. Giacomo di Campostella in Spagna, o al Santo Sepolcro, che supplivano alle penitenze canoniche. Si narra che papa Benedetto III ridusse la pena di un uomo che assassinò il proprio fratello, per aver fatto un pellegrinaggio a Roma. La visita ai luoghi consacrati, viste le difficoltà del viaggio, suppliva qualsiasi penitenza da scontare. Ancora non si parlava di indulgenze, ma di una commutazione della pena per il sacrificio personale compiuto da questi pellegrini. In seguito cominciarono a fiorire le cosiddette assoluzioni, come parte integrante della liturgia, le quali consistevano in semplici invocazioni a Dio perché rimettesse pienamente i peccati, ma non erano ancora indulgenze, piuttosto si trattava di impetrazioni, che non avevano valore assolutorio. Fu nell'XI secolo che iniziò il sistema delle indulgenze, grazie alle quali, al fedele che avesse compiuto un'opera buona, veniva condonata parte della penitenza imposta.

Nel 1060 Nicolò II elargì un'indulgenza in occasione della consacrazione di un altare posto nella basilica del monastero di Farfa. Nel 1095 Urbano II dichiarò che i crociati avrebbero ricevuto il pieno perdono dei peccati e la ricompensa eterna nell'aldilà. Nacque così l'indulgenza detta “plenaria”, quella che libera per intero dalla pena temporale dovuta per i peccati commessi. Intorno al 1187 Gregorio VIII applicò questa indulgenza anche a coloro che, non potendo partecipare di persona alla crociata, avessero pagato un'altra persona perché vi andasse al posto loro. Circa dieci anni dopo, Celestino III garantì che i crociati, morti in battaglia o sopravvissuti, per misericordia divina, avrebbero ottenuto il perdono di peccati per i quali si erano confessati.

Nel XIII secolo, verso il 1230, sorse il concetto del “tesoro della chiesa” costituito dai 'merita Christi et Sanctorum', una specie di "decreti di amnistia", attraverso i quali era possibile conseguire la salvezza, ma dietro il versamento di una somma di denaro. La questione assunse tale impronta, da arrivare alla pubblicazione di un listino con gli importi richiesti, a seconda della remissione della pena da espiare. Era stato stabilito un importo diverso, a seconda della classe d’appartenenza e della gravità del peccato. La vendita delle indulgenze era diventata l'occasione per accrescere il potere economico della Chiesa e raccogliere così fondi da destinare alla costruzione di chiese e monasteri. Soprattutto per i ricchi e benestanti, sarebbe stato più facile ottenere la remissione dei peccati, in cambio di una sostanziosa elemosina: l'indulgenza aveva assunto l'aspetto di una sorta di polizza assicurativa. Tuttavia, anche se da una parte i fedeli avevano trovato nell'indulgenza, una via più semplice e immediata per l'ottenimento del perdono, dall'altra, questo sistema contribuì all'aumento degli abusi e dell'immoralità, anche in ambito ecclesiastico, vista la semplicità con cui ci si poteva lavare la coscienza, tanto da indurre il monaco agostiniano Martin Lutero, anni dopo, a farsi promotore della Riforma protestante, in cui, l'oggetto della 'protesta', fu proprio il persistente abuso della vendita delle indulgenze.

La Bolla della Perdonanza celestiniana

Anche se la “Perdonanza” apparve subito nella sua valenza spirituale, per i motivi di solidarietà e riconciliazione promossi da Celestino V, in essa c'era anche un importante significato politico-sociale, tanto da divenire occasione per accrescere il potere economico e civile della città di L'Aquila. Per la ricorrenza annuale della Perdonanza, fu istituita una fiera che favorì l'ingresso della città nel circuito commerciale europeo, contribuendo all'espansione del volume d'affari, alla circolazione di denaro e alla crescita economica in tutto il territorio circostante.

Le celebrazioni ufficiali, per la prima volta, ebbero luogo il 29 agosto del 1295, con l'apertura della Porta Santa, nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, e col corteo che accompagnava solennemente la Bolla dell’indulgenza celestiniana, dal Palazzo del Magistrato, (oggi sede del Comune) alla basilica di Santa Maria di Collemaggio. Papa Bonifacio VIII, cercò in tutti i modi di annullare questa celebrazione, provando a distruggere la Bolla celestiniana ed emanando una nuova Bolla a pochi giorni dalle celebrazioni ufficiali.

I cittadini e le autorità civili de L'Aquila, protessero il testo originale della Bolla che Celestino V aveva donato alla città, rifiutandosi di consegnarla a Bonifacio VIII, e adoperandosi affinché le celebrazioni già organizzate, avessero luogo come previsto, contro la volontà del nuovo pontefice. Da allora, la Bolla è stata custodita gelosamente nella cappella blindata della Torre del Palazzo Civico, ma dopo il terremoto della notte del 5 aprile 2009, il documento è stato recuperato intatto e custodito temporaneamente nella caserma della Guardia di Finanza di Coppito. Secondo gli antichi statuti dell'epoca, i festeggiamenti vengono curati interamente dalla Municipalità della città, mentre il Primo Cittadino, prima dell'apertura della Porta Santa della Basilica di Collemaggio, dopo la sfilata di un corteo di centinaia di figuranti in costume d'epoca, legge pubblicamente il testo della Bolla del Perdono di papa Celestino, che riporto di seguito, secondo la traduzione dal latino all'italiano, a cura del prof. Alessandro Clementi:

«Celestino Vescovo servo dei servi di Dio, a tutti i fedeli di Cristo che prenderanno visione di questa lettera, salute e apostolica benedizione. Tra le feste solenni che ricordano i santi è da annoverare tra le più importanti quella di San Giovanni Battista in quanto questi, pur provenendo dal grembo di una madre sterile per vecchiezza, tuttavia fu ricolmo di virtù e fonte abbondante di sacri doni, fu voce degli Apostoli, avendo concluso il ciclo dei profeti, ed annunziò la presenza di Cristo in terra mediante l’annuncio del Verbo e miracolose indicazioni, annunziò quel Cristo che fu luce nella nebbia del mondo e delle tenebre dell’ignoranza che avvolgevano la terra, per cui per il Battista seguì il glorioso martirio, misteriosamente imposto dall’arbitrio di una donna impudica in virtù del compito affidatole. Noi, che nel giorno della decollazione di San Giovanni, nella chiesa benedettina di Santa Maria di Collemaggio in Aquila ricevemmo sul nostro capo la tiara, desideriamo che con ancor più venerazione tal Santo venga onorato mediante inni, canti religiosi e devote preghiere dei fedeli. Affinché, dunque, in questa chiesa la festività della decollazione di San Giovanni sia esaltata con segnalate cerimonie e sia celebrata con il concorso devoto del popolo di Dio, e tanto più devotamente e fervidamente lo sia quanto più in tale chiesa la supplice richiesta di coloro che cercano Dio troveranno tesori della Chiesa che risplendono dei doni spirituali che gioveranno nella futura vita, forti della misericordia di Dio onnipotente e dell’autorità dei suoi apostoli SS. Pietro e Paolo, in ogni ricorrenza annuale della festività assolviamo dalla colpa e dalla pena, conseguenti a tutti i loro peccati commessi sin dal Battesimo, quanti sinceramente pentiti e confessati saranno entrati nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio dai vespri della vigilia della festività di San Giovanni fino ai vespri immediatamente seguenti la festività. Dato in Aquila, 29 settembre, nell’anno primo del nostro pontificato». - (Testo pubblicato sul quotidiano online laquilanuova.org del 6 aprile 2009)

Quest'anno i festeggiamenti della Perdonanza, hanno assunto un significato ancora più particolare, visto che ricorre contemporaneamente la celebrazione degli 800 anni della nascita di papa Celestino V. Così, per l'occasione, nella Basilica di Collemaggio sono state esposte le spoglie di papa Celestino V e, piuttosto che durare un solo giorno, per volere di papa Benedetto XVI, l'indulgenza plenaria celestiniana sarà uno speciale giubileo che durerà un intero anno, dal 28 agosto 2009 al 29 agosto 2010. Sicuramente tale celebrazione ha assunto un importante significato sociale, ma nei suoi contenuti spirituali non trova certo riscontro negli insegnamenti del Cristianesimo primitivo, il quale prevedeva un perdono concesso da Dio, in virtù della misericordia e della redenzione di Cristo, supportato dalla conversione e da opere degne di pentimento, senza prevedere alcuna indulgenza o dispensazione della pena, dietro compenso.


(Articolo integrale, apparso in forma ridotta sulla Rivista: "Quaderni di percorsi storici" - GBeditoria (Roma) - Ottobre 2009, rivista interamente dedicata a L'Aquila)


IL MONOTEISMO

IL MONOTEISMO
DIO COME ATTRIBUTO

di Carlo Siracusa

Nelle sacre Scritture, il titolo “Dio”, viene attribuito tanto al Padre, quanto al Figlio; ciò nonostante, questo non indicherebbe che nel Cristianesimo ci siano due Divinità da adorare, altrimenti si tratterebbe di puro politeismo.

Il Cristianesimo è una fede assolutamente ‘monoteista’. Come si spiega, dunque, la presenza di due o più Persone divine, all’interno di una corrente monoteista?

La questione può essere chiarita, comprendendo la sostanziale differenza che ha prodotto l’evoluzione storico-religiosa nel monoteismo, passando dal monoteismo biblico a un monoteismo rigido. Vediamo dove sta la differenza.

Nel monoteismo biblico, l’adorazione è rivolta solo all'Iddio Supremo e Onnipotente. Non esistono altri déi ai quali esprimere adorazione, se non i “falsi déi”, quelli adorati dalle nazioni pagane, e che attirano a sé l’ira dell’Altissimo, il Dio geloso e che esige esclusiva adorazione (Na 1, 2).

Vi sono, tuttavia, altri esseri angelici o umani, definiti “déi” o “dio”, senza che a questi venga rivolta alcuna forma di adorazione; questo perché, nel monoteismo biblico, l’attribuzione del titolo “dio” è legata alla posizione o all’autorità concessa o permessa loro dall’Onnipotente, al fine di compiere il suo volere o fungere da suo rappresentante.

Il monoteismo rigido, è diverso dal monoteismo biblico, in quanto sostiene che, col termine “Dio”, si identifichi solo ed esclusivamente l'Essere Supremo e Onnipotente, l’Unico degno di adorazione, mentre chiunque altro venisse chiamato con questo titolo, sarebbe automaticamente un “falso dio”, in opposizione all’unico e solo vero Dio.

Questo concetto, non trova sostegno nella dottrina dell’antico popolo di Dio (gli Ebrei) né in quella dei primi Cristiani. Anzi, le Scritture mostrano come, il termine “dio”, è riferito sia al Padre che al Figlio, come anche agli angeli e agli uomini. Nella Bibbia, infatti, la parola “dio” può rappresentare l'Iddio Onnipotente, i falsi déi delle nazioni, oppure esseri umani o spirituali ai quali è stata conferita potenza o autorità.

Se possono chiamarsi ‘Déi’ coloro ai quali è rivolta la parola di Dio, tanto più può essere chiamato ‘Dio’ colui che è venuto a trasmetterci tale parola!

A sostegno di questo ragionamento, vorrei citare le stesse parole di Gesù, quando, in risposta ai suoi oppositori, disse: «Non è scritto nella vostra legge: Io ho detto: siete dèi? Se ha detto dèi coloro cui fu rivolta la parola di Dio, e la Scrittura non si può abolire, a colui che il Padre ha santificato e ha mandato nel mondo voi dite: Tu bestemmi, perché ho detto: Sono Figlio di Dio?». Con queste parole Gesù citava il Salmo, che dice: “Dio si alza nell’assemblea divina, giudica in mezzo agli dèi. …Io ho detto: ‘voi siete dèi, siete tutti figli dell’Altissimo’”.

Come si comprende dalla citazione di Gesù, benché parlasse di ‘dèi’, si riferiva ai giudici di Israele, in qualità di rappresentanti e portavoce di Dio.

Anche quando parlava un profeta, in quel momento era Dio stesso che parlava attraverso lui. Tanto più è lecito definire Gesù col termine ‘Dio’, visto che, dal momento in cui intraprese la sua missione dopo il battesimo, Dio continuò a manifestarsi in lui attraverso miracoli e opere potenti, dimostrando che Gesù era stato mandato da Dio, e che Dio stesso operava in lui attraverso la sua potente energia, lo Spirito santo.

In realtà, secondo il linguaggio biblico, ‘Dio’ non è un nome proprio di persona, ma un titolo, come può esserlo ‘Signore’ o ‘Re’, un sostantivo ebraico (´elohìm) che significa ‘essere forte’, ‘potente’.

La Bibbia attribuisce questo titolo sia a persone umane che spirituali, oltre che al Creatore, il quale ha voluto distinguersi dandosi un nome suo proprio, che lo identifica nella sua persona e nel suo carattere: YHWH.

Secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, “nel giorno fissato Erode, vestito del manto regale e seduto sul podio, tenne loro un discorso”. Fu proprio in quella occasione che il popolo acclamò Erode, dicendo: “Parola di un dio e non di un uomo!”(12, 21-22), facendo così di Erode un “dio”.

Anche il nemico del vero Dio, Satana il diavolo, quale potente persona angelica, nella Bibbia è chiamato ‘dio’: «Ai quali il dio di questo secolo ha accecato la mente incredula, perché non vedano il fulgore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio». Lo stesso dicasi di Mosè, il quale, benché uomo, divenne ‘Dio’ per Faraone: « Il Signore disse a Mosè: ‘Vedi, faccio di te un dio per il Faraone, e Aronne, tuo fratello, sarà il tuo profeta’ », e ancora: « Sarà lui a parlare per te al popolo: egli sarà per te la bocca e tu sarai per lui dio ».

Secondo il professor Werner, “la denominazione «Dio» è suscettibile di più di un significato. «Dio» indica in primo luogo l’assoluta onnipotenza divina, poi anche gli esseri che servono a questo Dio vero. Se essi sono designati quali «Dei», ciò va ad onore e a riconoscimento di colui che li manda e che essi rappresentano. Così si spiega il fatto che nella Sacra Scrittura (Esodo 22, 28) non solo angeli ma perfino uomini sono designati quali «Dei» senza esserlo in senso stretto”.

Anche nella Patristica, l’uso della parola ‘dio’ o ‘dei’, assume questo significato, infatti, nella Lettera a Diogneto (10,6) viene detto che, chi fa doni al prossimo, “diviene un dio per coloro che li ricevono”, in quanto imitatore di Dio.

Matthew Henry (1662-1714), considerato uno fra i più grandi espositori della Bibbia, parlando di Mosè e dell’incarico ricevuto di parlare a Faraone perché lasciasse andare via gli Israeliti, scrisse: “Qui Dio incoraggia Mosè ad andare dal Faraone e, mette fine al suo scoraggiamento. Lo investe di gran potenza ed autorità: Vedi, io ti ho stabilito come Dio per Faraone; vale a dire, mio rappresentante in questa vicenda, come pure i magistrati vengono chiamati dèi perché sono vicegerenti di Dio. Fu autorizzato a parlare e ad agire nel nome di Dio ed in sua vece, e, sotto la guida di Dio, fu rivestito di una potenza divina per fare quello che va oltre il potere normale e naturale; fu inoltre investito di autorità per punire la disubbidienza. Mosè era un dio ma soltanto un dio creato, non essenzialmente per natura, era dio solo in vista di un incarico. Era dio, ma lo era solo per il Faraone; l’Iddio vivente e vero è Dio per tutto l’universo”.

Nel linguaggio moderno, quando parliamo di Dio, siamo soliti riferirci al nostro Creatore. Ma nel linguaggio antico, come l’ebraico o il greco, non si faceva grande distinzione tra umano e divino, infatti non era difficile che ci si rivolgesse ai filosofi, ai re o ai soldati, chiamandoli ‘figli di Dio’, ‘Signori’ e anche ‘Dio’.

Se dunque di uomini imperfetti , di angeli e creature spirituali malvagie, è detto che sono ‘dèi’, tanto più non dovrebbe scandalizzarci che le Scritture definiscano ‘Dio’ Gesù, dal momento che tale egli è sia perché è stato generato dal suo Dio e Padre, sia per la potenza conferitagli attraverso lo Spirito santo.

“Le parole ‘padre’ e ‘Dio’ e ‘creatore’ e ‘signore’ e ‘padrone’ non sono nomi, ma denominazioni derivate dai Suoi benefici e dalle Sue opere…

La parola ‘Dio’ non è un nome, ma un’opinione, innata nella natura umana, di una entità ineffabile”.

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Riferimenti bibliografici:


Werner, Le Origini Del Dogma Cristiano.
Henry, Commentario Biblico.
Giustino, Le due Apologie.

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Articolo apparso sulla Rivista INSTORIA - N. 12 - Dicembre 2008 (XLIII)

EXCURSUS STORICO DELLA TEOLOGIA TRINITARIA

EXCURSUS STORICO DELLA TEOLOGIA TRINITARIA
E DELLE CORRENTI DI PENSIERO AD ESSA CONNESSE

di Carlo Siracusa

Nei secoli, si è visto un continuo fluire di correnti di pensiero, e il Cristianesimo è passato attraverso una travagliata controversia relativa alla figura di Cristo, divenuta oggetto di speculazione millenaria e di eresie.

Chi era realmente Gesù? La questione è passata così attraverso dibattiti filosofico-teologici, che hanno visto contendersi prevalentemente due concetti in antitesi: il subordinazionismo contro il trinitarismo, che cominciò ad affiorare e gradualmente ad imporsi in epoca post apostolica.

Intorno alla fine del I° secolo, l’influenza filosofica condizionò il pensiero cristiano, e si iniziò a elaborare il concetto teologico di uguaglianza nell’essenza e nella sostanza tra Padre e Figlio, che portò allo sviluppò successivo di quella che divenne la dottrina trinitaria, elaborata secondo due differenti punti di vista: uno ‘ontologico’ – relativo a ciò che Dio è – e l’altro ‘economico’ – relativo a ciò che Dio fa.

Secondo il primo punto di vista, le persone della trinità sono perfettamente unite, un’essenza divina condivisa e indivisa in persone divise, perfettamente uguali, consostanziali, coeterni; mentre non sono tali dal punto di vista ‘economico’, dove l'essenza divina è caratterizzata dalla tri-unità: Padre, Figlio e Spirito Santo come tre manifestazioni di un'unica sostanza indivisibile, indistinta, inseparabile, che all’occorrenza assume solo ruoli e funzioni differenti.

Questi concetti teologico-filosofici, fecero scaturire in Ario un energico accanimento in difesa del pensiero unitariano-subordinazionista, portando allo scontro con Alessandro e Atanasio, che, dal canto loro, sostenevano l’uguaglianza nella sostanza delle persone della Trinità, in un unico Dio.

Nel frattempo, nacquero molteplici movimenti, che diedero spazio alla formulazione di vedute alternative come il monarchianismo, il modalismo, il marcionismo, e altre correnti di pensiero, di seguito presentate in sintesi.

Subordinazionismo

Il pensiero subordinazionista, descrive il Padre, il Figlio e lo Spirito santo, come persone non uguali, ma subordinate l’uno all’altro. Il vero Dio è il Padre, mentre il Figlio e lo Spirito sono dèi inferiori. Questo pensiero era il concetto promosso dall’arianesimo, condiviso anche da molti padri preniceni.

Docetismo

Il nome di questa dottrina deriva dal termine greco dokéin (sembrare), dottrina che negava sia la natura umana di Cristo, che la sofferenza scaturita dalla sua passione e morte.

Cerintianesimo

Questo movimento prese il nome da Cerinto, uno gnostico del I° secolo che insegnava che Dio è al di sopra di tutto, e non è conosciuto; che il mondo è stato creato da una potenza inferiore e lontana da Dio, e che Gesù non era altro che un profeta, figlio di Giuseppe e Maria, nel quale, al battesimo, discese Cristo in forma di colomba, che risalì al cielo prima che Gesù morisse.

Ebionismo

Questa setta si diffuse dalla metà del I° secolo. Il suo nome deriva da una parola aramaica che significa “poveri”, probabilmente perché praticavano la povertà o perché avevano un concetto povero intorno a Cristo. Per gli ebioniti Gesù non era il Figlio di Dio, ma un grande profeta. Questi rimasero in attesa della venuta del Messia.

Modalismo

Il modalismo fu una delle forme in cui si espresse il monarchianismo, affermando che le persone della Trinità non erano altro che “modi” di essere e di agire dell'unico Dio. Caratteristica del modalismo era l’idea patripassianista, secondo cui fu il Figlio a incarnarsi quale “modo” scelto dal Padre per manifestarsi e che in realtà sarebbe stato il Padre in persona a soffrire la passione.

Adozionismo

Anche l'adozionismo, era una forma di monarchianismo, e vuole che al momento del battesimo di Gesù, Cristo scese su di lui in forma di colomba e, da quel preciso istante, Gesù fu “adottato” quale figlio da Dio. Secondo il pensiero adozionista, prima del battesimo, Gesù era stato un semplice uomo e aveva vissuto come gli altri uomini. In ogni caso, questo fatto eccezionale non lo rese Dio, ma lo diventò dopo la sua resurrezione.
L'adozionismo fu elaborato da Teodato (o Teodoto) di Bisanzio, un conciatore di pelli, il quale si recò a Roma durante il papato di Vittore (189-198) a insegnare la sua dottrina e per questo fu scomunicato.

Marcionismo

Fu fondato da Marcione nel II secolo. Secondo la sua filosofia, esistevano due dei. Il dio dell’A.T., che è il creatore, il protettore del popolo d’Israele e nemico di tutte le nazioni, e il dio del N.T. che invece amava misericordiosamente tutta l’umanità, e questi era il Padre di Gesù. Secondo Marcione, Gesù quando venne sulla terra non avrebbe assunto un corpo carnale, ma era solo un’apparenza, perché secondo lui, se Gesù si fosse incarnato in un corpo umano, sarebbe stato contagiato dalla materia, che è corrotta.

Monarchianismo

Il monarchianismo (dal greco móne arché : principio unico) era un movimento teologico del II e III secolo d.C., il cui scopo era di preservare l'unità del concetto di Dio, negando la natura divina di Cristo e la distinzione di tre persone in un unico Dio, sostenendo così la necessità di un monoteismo più rigoroso. Secondo questo pensiero, Padre Figlio e Spirito santo non erano altro che tre aspetti o attributi diversi, ma non persone distinte.

Arianesimo

L'Arianesimo prende il nome dal presbitero di Alessandria, Ario, nato in Libia verso il 256. Ufficialmente l'arianesimo prese avvio dal sinodo dei vescovi del 321, convocato da Alessandro, vescovo di Alessandria, che fece scomunicare Ario, reo di propagandare il suo pensiero eretico.
Fuggito in Palestina, Ario si rivolse a Eusebio di Nicomedia, suo vecchio compagno di scuola, il quale lo accolse a braccia aperte e creò un centro di riferimento per l'arianesimo nella propria diocesi.
Fu proprio Eusebio il maggiore interprete e difensore di questo movimento. Il fulcro dell'arianesimo era la negazione della divinità di Cristo e della consustanzialità (stessa sostanza o homooùsios) del Figlio con Dio Padre.
Secondo Ario, il Padre era eterno, la sorgente non originata di tutta la realtà, mentre il Figlio, sebbene fosse il primo nato fra tutte le creature e creatore del mondo, era dissimile (anòmoios) ed inferiore al Padre in natura e dignità, perché generato e creato dal Padre stesso, prima di tutti i tempi. Tuttavia ci fu un tempo in cui il Figlio non c'era, come recitava una frase molto citata di Ario.

Apollinarismo


Questa dottrina nacque da Apollinare di Laodicea (310-390 d. C.), teologo in opposizione alla dottrina ariana. Per cercare di salvaguardare la divinità di Cristo, sostenne la formula dell’unica natura di Gesù, secondo la quale il Verbo si sarebbe unito a Gesù, essere dall’umanità incompleta, (umanità dotata dell'anima vegetativa ed animale e priva dell'anima razionale), per conferirgli quell’anima razionale assente.

Monofisismo

Secondo questa dottrina, sostenuta da Eutiche, vescovo di Costantinopoli (V° secolo), Gesù possedeva una sola natura, quella divina (mónos + physis), che aveva assorbito la natura umana, presente solo in forma apparente. Questa dottrina fu condannata dal Concilio di Calcedonia (453), ma è tuttora seguita anche dalla Chiesa Copta.

Nestorianesimo

L’ideatore di questa concezione fu Nestorio, patriarca di Costantinopoli (intorno al 428-431). Secondo il Nestorianesimo, Cristo è formato da due nature distinte, due persone congiunte l'una con l'altra, attraverso un'unione puramente morale. Questa dottrina ritiene impossibile che il Verbo possa essersi incarnato e che possa
essere morto in sacrificio, inoltre, definisce Maria la "madre di Cristo" e non "madre di Dio".

Monotelismo

Dottrina formulata per la prima volta da Severo d'Antiochia (inizi del V° secolo), e rielaborata successivamente dal patriarca Sergio di Costantinopoli (VII° secolo). Secondo questa dottrina, in Gesù esiste una sola volontà (mónos + thélein): la volontà umana, fisica, di Gesù sarebbe stata determinata nel suo agire terreno dalla volontà divina. Per il monotelismo, infatti, la natura umana è subordinata a quella divina, pur conservando la distinzione fra le due nature.
Questo movimento può essere considerato una ripresa del monofisismo, con la differenza che, invece di sostenere l'unità della natura, sostiene l'unità della volontà. Il Concilio di Costantinopoli (680-681) risolse la questione, affermando che in Cristo esistono due distinte volontà, ciascuna secondo la sua diversa natura, ma concordi, poiché nella persona di Gesù trovano la loro unità.

Trinitarismo

La dottrina della Trinità afferma in Dio un’unica natura distinta in tre persone, Padre, Figlio e Spirito santo ed è considerata il dogma fondamentale della Cristianità, che è condivisa da cattolici, ortodossi e dalla maggior parte delle chiese protestanti. Esistono tuttavia delle varianti esegetiche fra le varie chiese.
L'interpretazione trinitaria presenta delle differenze tra la chiesa latina e quella greca. Entrambe riconoscono l'unità delle tre Persone, ciascuna delle quali è pienamente Dio, uguale in eternità, potenza, scienza e sapienza, ma allo stesso tempo ciascuna è distinta rispetto alle altre due. Le differenze nascono nella comprensione delle relazioni che intercorrono fra di esse, in particolar modo nella questione del cosiddetto “Filioque”, termine latino che significa "e dal figlio". Secondo il credo niceno-costantinopoliano, il Figlio è generato dal Padre, e lo Spirito santo procede dal Padre, così che il Padre risulta essere l'unica causa della Trinità.
Con i successivi sviluppi teologici, la Chiesa latina stabilì che lo Spirito santo procede anche dal Figlio: secondo la formula latina inserita nel Credo Cattolico: “Credo nello Spirito Santo, ... che procede dal Padre [e dal Figlio = Filioque]”.
La Chiesa di Costantinopoli si urtò con quella latina riguardo alla processione dello Spirito santo, non accettando il concetto di processione dal Figlio. Questo argomento divenne oggetto di dispute, risultò uno tra i punti che portò alla scissione tra la Chiesa latina, (Cattolica - d’Occidente) e quella greca, (Ortodossa - d’Oriente).
Sebbene i primi Padri cercassero di far riemergere le verità del Cristianesimo, è pressochè evidente come, a motivo della loro provenienza da famiglie pagane e per l’educazione ellenistica ricevuta, spesso le loro testimonianze non sono perfettamente in linea con le Scritture sacre, e risultano a volte condizionate dal pensiero filosofico del loro tempo. Qualcuno, addirittura, cercò di cristianizzare l’ellenismo, costruendo una sorta di ponte tra il cristianesimo e la filosofia greca. Tuttavia, benché i loro scritti possano aver risentito dell’influenza filosofica, e non corrispondano esattamente al primissimo Cristianesimo, la loro testimonianza è comunque degna d’essere presa in considerazione, e comparata alle varie congetture cristiane del nostro tempo.

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Articolo apparso sulla Rivista INSTORIA - N. 5 - Maggio 2008 (XXXVI) - Tratto dal libro di Carlo Siracusa: "A Sua Immagine, analisi di una dottrina", Eidon Edizioni, Genova, 2006

ZWINGLI E LUTERO

ZWINGLI E LUTERO
DUE RIFORMATORI DIVISI DAL SIGNIFICATO DELL’EUCARISTIA

di Carlo Siracusa

La teologia sacramentale rappresentava, agli occhi dei Riformatori, quel che di male c’era nella teologia medievale. Riconoscevano il bisogno di giungere a una versione più antica e più semplice della teologia cristiana. Per loro la teologia sacramentale si presentava come una pianta che necessitava di una potatura radicale. Venne lanciato, così, un attacco contro la concezione medievale del numero, della natura e della funzione dei sacramenti, riducendoli da sette a due: il battesimo e l’eucaristia.

Per ciò che concerneva la teologia dell’eucaristia, si aprì un grave contrasto tra Lutero e Zwingli, i leaders delle due ali della Riforma classica, i quali non riuscirono a trovare un’intesa sul significato della presenza di Cristo nell’eucaristia.
Secondo la teoria classica della transustanziazione, il pane e il vino della messa, dopo la consacrazione, pur mantenendo la loro apparenza esterna, sono trasformati rispettivamente nella ‘sostanza’ del corpo e del sangue di Cristo. Ma i Riformatori non erano dello stesso pensiero, in quanto la messa sarebbe divenuta una sorta di ‘ripetizione’ continua del sacrificio di Cristo.
La Riforma, invece, dava risalto al tema dell’adattamento divino alla debolezza umana, un’idea che si rifà a Calvino, il quale faceva questo ragionamento: tutti i buoni oratori conoscono i limiti intellettuali del loro uditorio e adattano il loro modo di esprimersi e modificano il proprio linguaggio, per venire incontro alle necessità del loro uditorio evitando parole e concetti difficili, e sostituendoli con locuzioni più adeguate. Ebbene, Dio fa lo stesso: si adatta alle nostre limitazioni, scende al nostro livello usando un linguaggio di immagini vigorose che gli permettono di rivelarsi a una grande varietà di persone.

Il fatto che Dio usi dei mezzi molto umili per rivelarsi, non implica alcuna debolezza o carenza da parte sua; piuttosto, la necessità di adottare mezzi espressivi, rispecchia la nostra debolezza e le nostre limitazioni, che Dio riconosce e di cui tiene conto. Egli usa svariati modi per creare e sostenere la fede: parole, concetti, analogie, modelli, segni e simboli. Il pane e il vino, vanno intesi come un elemento importante in questo arsenale di risorse. Dio ha così aggiunto alla sua Parola dei segni visibili e tangibili del suo favore e della sua misericordia. Insomma, una sorta di adattamento alle nostre limitazioni, al bisogno di avere dei segni. Il pane e il vino sono, per l’appunto, dei segni sacramentali che accrescono la nostra fede in Dio, ci rassicurano sulla realtà della divina promessa di perdono rendendoci più facile accettarla.

Lutero spiegò il pane e il vino della Santa Cena, usando l’idea di ‘testamento’, inteso come ‘atto di ultime volontà’. Ne trattò in modo esauriente nel suo scritto “La cattività babilonese della chiesa” (1520) in Scritti politici cit., pp.253-4:
“Si chiama testamento la promessa di chi sta per morire, promessa con cui definisce la sua eredità ed istituisce gli eredi. Il testamento comporta pertanto innanzitutto la morte del testatore, e in secondo luogo la promessa di un’eredità e la designazione degli eredi […]. Ciò noi vediamo chiaramente anche nelle parole di Cristo. Egli testimonia della sua morte quando dice: ‘Questo è il mio corpo che sarà dato, questo il mio sangue che sarà versato’; nomina e precisa l’eredità quando dice: ‘in remissione dei peccati’; istituisce poi gli eredi dicendo: ‘per voi e per molti’, cioè per quelli che accettano e credono nella promessa del testatore”.


Lutero scagliò un forte attacco contro la concezione cattolica dei sacramenti, ma Enrico VIII, re d’Inghilterra, ricevuto dal papa il titolo di Fidei Defensor (difensore della fede), riaffermò l’esistenza di sette sacramenti.
Nel corso dell’XI secolo, capitò che, alcuni laici poco attenti al modo in cui ricevevano il vino, versarono sul pavimento delle chiese, quello che la teologia della transustanziazione considerava il vero e proprio sangue di Cristo. Onde evitare un incidente così forte, nel corso del XIII secolo, i laici vennero esclusi dal ricevere il vino. Per Lutero, il rifiuto di offrire il calice ai laici era un peccato. Così, l’offerta del calice divenne un segno distintivo dell’adesione alla comunità della Riforma. Ma la dottrina della transustanziazione per Lutero era un’assurdità. Per lui, ciò che si deve credere è che Cristo è realmente presente nell’eucaristia.

La teoria della transustanziazione sostiene che il pane e il vino (ossia il loro aspetto esteriore) rimangono invariati, mentre cambia la ‘sostanza’ invisibile: cessa di essere quella del pane e del vino per diventare quella del corpo e del sangue di Gesù Cristo. Lutero rifiutò come assurda questa pseudo-filosofia e chiese che l’uso di tali idee aristoteliche venisse abbandonato. Non c’era posto per tali idee nella teologia cristiana! Lutero non contestava la ‘presenza reale’, ma soltanto quel determinato modo di spiegare tale presenza. Affermava che, se si fosse potuto dimostrare che tale idea era anti-biblica, sarebbe stato il primo ad abbandonarla. Perchè secondo lui, Matteo 26:26 “Questo è il mio corpo”, era perfettamente chiaro nel suo senso letterale e non ammetteva alcun’altra spiegazione.

Andrea Carlostadio, che era stato suo collega ed amico, aveva un’opinione diversa: secondo lui, nel dire quelle parole, Cristo indicava se stesso. Non fu difficile per Lutero liquidare tale idea come un’errata interpretazione del testo. Ma gli fu molto più difficile confutare l’affermazione di Zwingli secondo cui la parola “è” era una semplice figura retorica per dire “significa”, o “rappresenta”, e non andava quindi intesa letteralmente. La si doveva accostare ai casi in cui Gesù disse: “Io sono la porta”, o “Io sono la via”, come vedremo anche più avanti.

Zwingli era cappellano delle milizie della Confederazione svizzera. Ispirandosi all’uso militare del giuramento, Zwingli spiegò che il “sacramento” è sostanzialmente una dichiarazione di fedeltà che un individuo fa a una comunità. Come il soldato giura fedeltà al suo esercito, così il cristiano giura fedeltà ai suoi correligionari cristiani. Per Zwingli il sacramento è il mezzo con cui una persona dimostra alla chiesa di voler essere, o di essere ormai, un soldato di Cristo.
Mentre la predicazione della Parola di Dio è l’elemento fondamentale, i sacramenti sono come il sigillo su una lettera: si limitano a confermarne il contenuto.

Il cristiano commemora l’evento storico che diede origine alla chiesa cristiana (ossia la morte di Gesù Cristo) come segno del suo impegno verso la chiesa. L’eucaristia è dunque un memoriale dell’evento storico che ha determinato il sorgere della chiesa cristiana e una pubblica dimostrazione della fedeltà del credente alla chiesa e ai suoi membri.

Zwingli spiegò l’espressione di Gesù: “Questo è il mio corpo” (Matteo 26:26), dicendo che queste parole furono pronunciate da Cristo per indicare in che modo voleva essere ricordato dalla sua chiesa. E’ come se Cristo avesse detto: “Vi affido un simbolo di questa mia rinuncia che è il mio testamento, per ravvivare in voi il ricordo di me, di modo che, quando vedrete questo pane e questo calice offerti pubblicamente in questa cena commemorativa, vi ricorderete di come sono stato dato per voi, come se allora mi vedeste davanti a voi come mi vedete ora, mentre mangio con voi”.

Per Zwingli, l’eucaristia era “un memoriale delle sofferenze di Cristo, non un sacrificio”, e le parole: “Questo è il mio corpo”, non si possono prendere alla lettera, eliminando così il concetto di una ‘presenza reale di Cristo’, teologia sostenuta invece da Lutero.
Come un uomo che parte per un lungo viaggio lontano da casa può dare a sua moglie il proprio anello perché essa lo ricordi fino al suo ritorno, così Cristo lascia alla sua chiesa un segno affinché essa lo ricordi fino al giorno in cui egli ritornerà in gloria. Questo era per Zwingli il significato che assumevano il pane e il vino usati da Gesù nell’ultima Cena.
Vediamo di seguito, quali sviluppi portarono Zwingli a questa conclusione, in antitesi col pensiero di Lutero.

Nel 1509, una piccola Biblioteca dei Paesi Bassi, richiese un inventario. Il lavoro fu affidato a un certo Cornelius Hoen, il quale scoprì che la Biblioteca conteneva un’importante collezione degli scritti dell’umanista Wessel Gansfort (1420-89). Gansfort, pur non negando la dottrina della transustanziazione, sviluppava l’idea di una comunione spirituale tra Cristo e il credente.
Hoen, attirato da quest’idea, la rielaborò come critica radicale alla dottrina della transustanziazione, e la redasse sotto forma di lettera.
In questa lettera Hoen sostiene che la parola est non dev’essere interpretata letteralmente, come se significasse “è”, o “è identico a”, bensì come significat, “significa”, “indica”. Per esempio, quando Cristo dice: “Io sono il pane della vita” (Gv 6:48) evidentemente non s’identifica con una pagnotta, e neppure con il pane in generale. Qui la parola “è” va intesa in senso metaforico, non letterale. I profeti dell’AT hanno certamente detto che Cristo sarebbe “divenuto carne (incarnatus)”, ma ciò doveva avvenire una volta, e una volta sola. “In nessun momento i profeti annunziarono, o gli apostoli predicarono, che Cristo sarebbe, per così dire, ‘divenuto pane (impanatus)’ tutti i giorni mediante l’intervento di un qualsiasi prete che offrisse il sacrificio della messa”.

Hoen espresse l’idea che l’eucaristia sia come un anello che un giovane dà a una ragazza per rassicurarla sul proprio amore per lei. E’ un pegno d’amore: un’idea che si ritrova in tutti gli scritti di Zwingli su tale argomento. Gesù aggiunse alla promessa un pegno, nel caso vi fosse da parte loro una qualsiasi incertezza: come un giovane, nell’intento di rassicurare la sua donna, le dà un anello dicendo: “prendilo, sono io stesso che mi do a te”. E lei, nell’accettare l’anello, ha la certezza che lui le appartiene e distoglie il suo cuore da ogni altro pretendente e per compiacere il suo uomo si volge a lui e a lui soltanto.

L’altra idea sviluppata da Hoen è quella della commemorazione di Cristo in sua assenza. Hoen osserva che le parole: “questo è il mio corpo” sono immediatamente seguite dalle altre: “fate questo in memoria di me”, quindi suggerisce esplicitamente la commemorazione di una persona che è assente fisicamente.

Nell’estate del 1525 il dotto Ecolampadio, Riformatore di Basilea, pubblicò un libro in cui sosteneva che gli scrittori del periodo patristico non sapevano nulla della transustanziazione, né delle idee di Lutero sulla presenza reale, ma tendevano verso una posizione che veniva sempre più accostata al nome di Zwingli.
Zwingli sosteneva che la Scrittura usa diversi tipi di linguaggio, perciò la parola “è” significa talvolta: “è assolutamente identico a”, ma altre volte vuol dire: “rappresenta” o “significa”.
Nel suo trattato Sulla Cena del Signore (1526) egli scrisse: “In tutta la Bibbia troviamo delle figure retoriche, chiamate in greco tropos, ossia un parlare metaforico, che va inteso in un senso diverso. Per esempio in Giov.15 Cristo dice: “Io sono la vite”. Ciò significa che Cristo è come una pianta di vite nei confronti di noi che siamo sostenuti e cresciamo in lui come i tralci crescono dal ceppo […]. Allo stesso modo, in Giov.1, leggiamo: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. La prima parte del versetto è un tropo, poiché Gesù non è un agnello in senso letterale”.

Zwingli conclude dicendo che, ci sono “innumerevoli passi della Scrittura in cui “è” vuol dire “significa”. Il problema da affrontare è dunque di sapere se in quel contesto la parola “è” non può essere intesa in senso letterale. Deve essere compresa in senso figurativo o metaforico. Nelle parole: “questo è il mio corpo”, il termine “questo” indica il pane, e il termine “corpo” indica il corpo che è stato messo a morte per noi. Perciò la parola “è” non può venir presa in senso letterale, perché il pane non è il corpo”.
Ecolampadio sostenne che, “trattando di segni, sacramenti, immagini, parabole e interpretazioni, occorrerebbe intendere le parole in senso figurato e non in senso letterale”.

L’essenziale per Zwingli è il rapporto tra il segno e la cosa significata. Egli si serve di questa distinzione per sostenere che è inconcepibile che il pane potesse essere il corpo di Cristo.
“Il sacramento è il segno di qualcosa di santo. Quando dico: ‘Il sacramento del corpo del Signore’ mi riferisco semplicemente al pane che è simbolo del corpo di Cristo, che fu messo a morte a nostro favore[…]. Ma il vero corpo di Cristo è quello che è seduto alla destra di Dio, e il sacramento del suo corpo è il pane e il sacramento del suo sangue è il vino, cui partecipiamo con rendimento di grazie. Ma il segno e la cosa significata non possono essere identici. Perciò il sacramento del corpo di Cristo non può essere il corpo stesso”. (ZWINGLI, Eine klare Unterrichtung vom Nachtmal Christi (1526), in Z, vol.91 (Lipsia, Heinsius, 1927), pp.796-800)

Per Lutero, Cristo è presente nell’eucaristia. Chiunque riceve il pane e il vino riceve Cristo. Ma Zwingli faceva notare che le confessioni di fede (i credi) e la Scrittura dicono che Cristo è attualmente “seduto alla destra di Dio”. Ciò implica che Cristo non è presente corporalmente nell’eucaristia. Non può trovarsi in due luoghi nello stesso tempo. Lutero sostiene invece che “la destra di Dio” è un’espressione metaforica che non va presa alla lettera.

L’idea di nutrirsi di Cristo, è un’immagine tradizionalmente collegata alla dottrina della transustanziazione. Se il pane è il corpo di Cristo, si può ben dire che mangiandolo il credente si nutre di Cristo. Zwingli insiste nell’affermare che tale immagine biblica va intesa in senso figurato come allusione alla fiducia che si ha in Dio per mezzo di Cristo.
Nella sua ultima opera, la Expositio christianae del 1531, indirizzata a Francesco I, re di Francia, il concetto è chiarissimo: “Mangiare spiritualmente il corpo di Cristo significa aver fiducia, con il cuore e con la mente, nella misericordia e nella bontà di Dio, per mezzo di Cristo, ossia, avere la costante certezza di fede che Dio ci concederà il perdono dei peccati e la gioia della salvezza eterna per merito di suo figlio che ha dato se stesso per noi… Perciò, quando vi avvicinate alla Cena del Signore per nutrirvi spiritualmente di Cristo, voi ringraziate il Signore per questo suo grande favore, per la redenzione che vi libera dalla disperazione, e per il pegno che vi dà la certezza della salvezza eterna”.

Che cosa, dunque, caratterizza il pane della comunione? Che cosa lo rende diverso da un altro pane qualsiasi? Se non è il corpo di Cristo, che cos’è? Zwingli risponde con un’analogia. Pensate all’anello di una regina e vedetelo in due contesti diversi. Potete immaginare che l’anello sia posato su un tavolo, e non ha alcun significato particolare. Ma pensatelo in un altro contesto, ossia al dito della regina come un dono che le ha fatto il re. Esso acquista dei connotati personali che derivano dal suo rapporto con il sovrano, con l’autorità, potere e maestà. In questo caso il valore dell’anello trascende di gran lunga il prezzo dell’oro di cui è fatto. Tutto ciò deriva dal fatto di passare da un contesto a un altro: ma l’anello in sé non cambia per nulla.
Zwingli si serve con particolare efficacia di tale analogia nella sua Expositio Fidei: “L’anello con cui Vostra Maestà è stato fidanzato alla regina Vostra consorte non è da lei valutato solo in quanto oggetto d’oro. E’ d’oro, ma in pari tempo non ha prezzo perché è il simbolo del suo regale consorte. Per questo motivo ella lo considera il più importante di tutti i suoi anelli, e se le capitasse di dover elencare e valutare i suoi gioielli direbbe: ‘Questo è il mio re, ossia, questo è l’anello con cui il mio regale sposo si è fidanzato a me. E’ il segno di un’unione e di una fedeltà indissolubili’”.

L’anello acquista dunque significato e valore secondo il contesto: non sono inerenti, ma acquisiti. Così, dice Zwingli, accade con il pane della comunione. Il pane, come l’anello, in se stesso non si trasforma, ma il suo significato cambia enormemente. Tale significato, ossia ciò che viene associato all’oggetto, può variare senza che vi sia alcuna modificazione nella natura dell’oggetto stesso. Zwingli avanza l’idea che, nel caso del pane e del vino, si realizzi lo stesso processo. Nel consueto contesto giornaliero sono pane e vino ordinati e comuni, senza significato particolare. Ma, trasferiti in un contesto diverso, assumono nuovi e importanti significati. Quando sono messi al centro di una comunità riunita per il culto e quando vengono nuovamente narrate le vicende dell’ultima notte della vita di Cristo, essi diventano efficacissimi ricordi degli eventi che fondano la fede cristiana. Il nuovo contesto dà loro questo significato, ma in se stessi rimangono inalterati.

È vero che ambedue i Riformatori rifiutarono lo schema sacramentale medievale. Il Medioevo aveva identificato sette sacramenti, mentre essi insistevano sul fatto che due soli sacramenti, il battesimo e l’eucaristia (o santa Cena), sono riconosciuti nel Nuovo Testamento. Tuttavia, Lutero e Zwingli non poterono trovarsi d’accordo sul significato delle parole: “Hoc est corpus meum”, di Matteo 26:26, ritenute fondamentali nell’eucaristia. Per Lutero est vuol dire “è”; per Zwingli vuol dire “significa”. Due maniere molto diverse d’interpretare la Scrittura.

Riferimenti bibliografici:

ALISTER E. MCGRATH – “Il pensiero della Riforma” – Claudiana, Torino – 1999
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Articolo pubblicato sulla Rivista INSTORIA - N. 11 - Novembre 2008 (XLII)

mercoledì 29 luglio 2009

Le Gargolle: i mostri di pietra

Le Gargolle
I mostri di pietra del Duomo di Siena
di Carlo Siracusa


Sarà capitato anche a voi di osservare con curiosità, quelle strane forme sporgenti, quelle figure demoniache, con facce gioconde, metà uomini e metà bestie, che si affacciano dall’ imponente facciata del Duomo di Siena e del Palazzo del Municipio sito nella famosa piazza del Palio. Queste creature ibride sono presenti anche in altre chiese e cattedrali medievali. Le più famose si trovano presso la Chiesa di Notre Dame di Parigi, come anche nel centro di Oxford, o nel Duomo di Milano.

Questi mostri grotteschi e inquietanti si chiamano “gargolle”, dal latino gurgulium, termine che indica il rumore o ‘gorgoglio’ dell’acqua, che proviene dal doccione, la parte finale dello scarico per l’acqua piovana che protende dal cornicione o dal tetto, per lasciare scorrere l’acqua lontano dai muri, e non rovinare così la facciata e le sue ornamentali decorazioni. La loro funzione, oltre ad essere decorativa e dal significato mistico e scaramantico, era quella di fare scorrere l'acqua piovana delle grondaie lungo la loro schiena o all'interno della scultura stessa, per farla defluire dalla bocca. Queste pietre ornamentali furono molto utilizzate nel corso del Medioevo; si ritrovano spesso all'esterno di municipi, chiese e cattedrali dell'epoca, e hanno la forma di animali alati, con teste dalle forme più strane.

Le prime gargolle risalgono intorno al X secolo, quando si iniziò a costruire in pietra la parte terminale del canale di scarico esterno delle grondaie. Fu la fantasia medievale a dare a queste pietre sporgenti, forme nuove e diverse, rappresentando mostri e creature animali ibridi, a metà tra gli uccelli e i mostri delle favole. Ma qual è l’origine di queste creature?

Queste forme, così impressionanti e strane, trovano la loro origine nella simbologia biblica e attigono dall’universo pagano e dal bestiario medievale – Physiologus – libro illustrato contenente la descrizione di animali fantastici provenienti da terre lontane. Sono anche immagini alchemiche dei quattro elementi: la pietra dalla quale sono ricavate, l'acqua che fuoriesce dalle loro bocche, l'aria dell'altezza dove si affacciano, il fuoco della luce che si addensa negl’incavi, scavando attorno a sé ombre profonde.
Circa le ragioni della loro presenza in edifici religiosi come le chiese della cristianità, sono state avanzate diverse interpretazioni: per alcuni le “gargolle” sono sculture rappresentanti mostri spaventevoli, allo scopo di tenere lontani gli spiriti malvagi dai luoghi di culto, una sorta di scaccia demoni; per altri, invece, rappresentavano un invito ad entrare in quell’edificio, per rifuggire dagli spiriti maligni che dimorano al suo esterno.

Molti ritenevano queste creature delle vere e proprie divinità, e la loro presenza ha
impedito persino il saccheggio di chiese e cattedrali, visto il timore che incutevano. Dal momento che la maggior parte della popolazione era analfabeta, la chiesa cattolica dell’epoca riteneva che, a motivo del suo impatto visivo così forte, una gargolla avrebbe esercitato un potere ancora più forte, permettendo così che le loro dottrine assumessero un valore di timore reverenziale.

C’è poi l’antica leggenda, nata sulle rive della Senna, famoso fiume che attraversa la Francia, che racconta di un mostro spaventevole, con le ali e il corpo di un rettile, una sorta di drago, chiamato per l’appunto “Gargouille”. In una grotta vicino al fiume c’era la sua dimora, e questa bestia riusciva a calmarsi solo grazie alle offerte sacrificali che gli venivano fatte di anno in anno, fin tanto che un sacerdote, il futuro arcivescovo di Rouen (città del Nord-Ovest della Francia), dopo averlo esorcizzato, lo imprigionò legandolo con la sua stessa tonaca, e alla fine fu bruciato su un rogo. Il collo e la testa del mostro non si consumarono col fuoco, così furono staccate dal resto del corpo ed esposte sulle mura di Rouen, divenendo così il primo modello di gargolle.

Nel XIII secolo l’utilizzo delle gargolle aumentò notevolmente, e man mano si realizzarono forme sempre più elaborate e strane: se inizialmente veniva scolpita solo la parte relativa al busto della creatura mostruosa, col tempo si passò a scolpirla per intero, con espressioni sempre più tipiche a una caricatura animale grottesca, avvinghiata alla facciata dell’edificio.
Col passare dei secoli, queste mistiche figure in pietra hanno perso la loro funzione originaria e si sono trasformati in elementi decorativi fini a se stessi.

Thomas Hardy, poeta e scrittore inglese (1840-1928), nel suo "Via dalla pazza folla”, descrive così una gargolla o “gargoyle” (secondo il linguaggio anglosassone):<<…Troppo umano per dirsi drago, troppo diabolico per esser uomo, troppo animale per esser demone e troppo poco uccello per chiamarsi grifone, quest'orribile essere di pietra sembra coperto di una pelle grinzosa, le orecchie corte e dritte, gli occhi fuori dalle orbite, le dita adunche che tirano i lati della bocca così da render più facile il passaggio dell'acqua che esso vomita … sta lì aggrappato da quattrocento anni a sghignazzare al mondo: in silenzio, se c'è bel tempo, sbuffando e gorgogliando nei giorni di pioggia.>>

Nel nostro tempo la Disney ha preso spunto da questi “mostri di pietra” per dare vita a film come “Il gobbo di Notre Dame”; ha prodotto anche una serie animata intitolata Gargoyles, i cui protagonisti sono esseri antropomorfi dai colori differenti, capaci di volare e dotati di forza sovrumana. Di giorno, a seguito di una maledizione, si tramutano in pietra, mentre di notte tornano in vita e proteggono il castello del loro signore.

Le gargolle sono, dunque, pietre intagliate, che uniscono l’arte alla storia e la religione alla superstizione.


articolo pubblicato nella Rivista: Quaderni di percorsi storici - GBeditoria (Roma)

Aggressività giovanile: l'espressione di un disagio



Aggressività giovanile
l'espressione di un disagio

di Carlo Siracusa

Lo scenario in cui oggi è protagonista la figura del giovane adolescente del nostro Paese, è una società che sta evolvendosi verso un sistema sempre più indipendente, dove ciascuno pretende la propria autonomia, pur non avendo gli elementi, le competenze e le garanzie necessarie per dimostrare di essere in grado di saper dirigere se stessi; una società che guarda ai diritti, trascurando i doveri; una società che ha mutato i valori, cambiando l’illegalità in legalità, e ciò ch’era ritenuto immorale in “nuova moralità”; una società in cui istituzioni fondamentali come la scuola e la religione, hanno perso la loro forza morale, lasciando i giovani senza una guida, smarriti, privi di orientamento morale e di fiducia in se stessi.

Nell’ambito di questa situazione generale va inquadrata, sicuramente, anche la crisi della famiglia. L’istituzione familiare ha subito nel corso dei secoli una notevole evoluzione. La famiglia, un tempo ritenuta il nucleo della società, oggi viene considerata un’istituzione superata, da più parti contestata e respinta, dando spazio a nuove congetture di convivenza, come i cosiddetti “DICO”, o le “unioni di fatto” , che consentirebbero anche a persone dello stesso sesso di costituire o, direi meglio, ‘scimmiottare’ quella che, sin dalla comparsa dell’uomo sulla terra, è sempre stata la Famiglia, nel pieno senso del termine. Le ragioni per cui la ‘famiglia’ sta perdendo il suo significato emblematico, sono molteplici e legati intimamente fra loro: fine della società contadina; sgretolamento della famiglia patriarcale; contestazioni femministe; sviluppo di un’educazione consumista; insubordinazione dei figli; disinteresse dello Stato.

La donna, ad esempio, dopo secoli di sudditanza, ha rivendicato i propri diritti, la propria legittima autonomia dall’uomo, sino a qualche decennio fa, somma autorità della famiglia, spesso dispotica. A questo proposito il movimento femminista ha svolto, sostenuto da una grande maggioranza di donne stanche e deluse, un’opera preziosa anche se talvolta scoordinata e non sempre costruttiva. La donna ha avvertito il bisogno di inserirsi attivamente nella società, di compiere le stesse esperienze dell’uomo, di evitare una mortificante emarginazione dal mondo del lavoro, della politica e della cultura. Ciò ha provocato le prime insofferenze, la crisi della coppia, lo scricchiolamento della millenaria autorità maschile, di colui che un tempo era il pater familias.

Questa evoluzione ha portato l’uomo al disorientamento, causando una confusione di ruoli, forse salutare, ma ansiogena, con la difficoltà a rimodellare la propria identità in risposta ai mutamenti culturali, mutamenti che hanno coinvolto inevitabilmente anche i giovani, i figli, un tempo completamente subordinati al padre, quasi schiacciati dalla sua autorità. Se, comunque, l’istruzione di massa ha reso i giovani culturalmente superiori, nello stesso tempo, hanno finito col non riconoscere più la figura genitoriale del padre, la guida, il modello esistenziale e culturale da imitare, reso evanescente dai mutamenti socioeconomici avvenuti negli ultimi tempi. Di conseguenza, i giovani hanno cercato di estraniarsi dalla famiglia, guardando alla figura del genitore, come a un limitatore dell’autonomia personale.

Sulla base dei fattori menzionati sopra, ritengo, dunque, che la crisi della famiglia sia imputabile essenzialmente a un mutato rapporto di forze. E se da una parte, questa crisi ha provocato uno sconvolgimento che si ripercuote negativamente nel comportamento dei giovani, dall’altra ha rappresentato anche un’opportunità, un fatto positivo, in quanto, ha messo in discussione rapporti sbagliati e ingiusti, sedimentatisi nel corso dei secoli, imponendo così la necessità di un cambiamento che, speriamo, porti nel tempo a un giusto equilibrio, nelle posizioni e nei ruoli, di coloro che formano la famiglia.

Come nel caso della famiglia, anche la società ha modificato i suoi schemi, e i giovani hanno modificato il loro atteggiamento verso se stessi, verso la società e verso il mondo. Questo “mutamento generale”, ha sviluppato quel fenomeno che si sta diffondendo con grande rapidità, e che vede giovani provenienti da ogni ceto sociale, manifestare un’aggressività che sfiora la violenza. Purtroppo i genitori hanno sempre meno tempo; la mancanza di tempo porta a una scarsa comunicativa con i figli, di conseguenza questo a sua volta comporta nei giovani, la difficoltà e l’incapacità di comunicare, insieme a un’autentica mancanza di autostima.

A volte, i modelli istiganti all’aggressività, possono trovarsi involontariamente proprio nell’ambito della stessa famiglia: un genitore che, ad esempio, picchia il figlio, propone a quest’ultimo un modello di comportamento improntato alla punizione. Si è riscontrato. Infatti, che un principio di aggressività, i giovani lo manifestano all’interno della propria famiglia, soprattutto quando il genitore non si prende il tempo di ascoltarli.

Per illustrare opportunamente la situazione, che vede in stretta correlazione l’esigenza che i genitori sappiano ascoltare i propri figli, e le reazioni impulsive, aggressive o violente che questi ultimi manifestano, visualizziamo la seguente scena: un genitore, sentendo i figli litigare nella loro stanza, si precipita per vedere cosa sta succedendo. Nell’attimo in cui entra nella stanza dei ragazzi, vede uno dei due inveire contro l’altro, dandogli pugni e spintoni. La tendenza immediata del genitore è quella di fermare e punire il figlio che è stato visto scalpitare dando pugni all’altro. In queste circostanze il genitore reagisce rimproverando, dando forse punizioni, gridando. Chi ci assicura, però, che il bambino trovato nell’attimo in cui reagisce, non stia rispondendo a una provocazione dell’altro?


Da questo esempio, comprendiamo l’esigenza che i genitori imparino ad ascoltare i propri figli, piuttosto che reagire con punizioni e urla, onde evitare che la conseguenza immediata del figlio, sia la necessità di dare sfogo a questa “incomprensione” o “disagio”, che nasce già nell’ambito familiare, e trova nel tempo le sue manifestazioni in atti di aggressività, forme di bullismo e azioni violente nei confronti degli altri, spesso allo scopo di impedire la prevaricazione dei propri diritti.
Altre cause, che proprio come in un processo di corrosione per stillicidio, goccia su goccia, contribuiscono a corrodere nei giovani i giusti valori morali, scatenando in loro quelle manifestazioni di aggressività che stanno preoccupando seriamente sia l’opinione pubblica che le autorità, devono ricercarsi nell’uso (o abuso) che viene fatto di strumenti tecnologici come la televisione, i telefonini e i videogiochi.

E’ risaputo che, una lunga esposizione all’osservazione di spettacoli e video, apparentemente innocui, ma con esplicite immagini di sangue e violenza, mette in atto nei giovani un processo di desensibilizzazione della loro coscienza nei confronti della violenza reale, alimentando in loro abitudini aggressive. In alcuni videogiochi, ad esempio, si segnano punti infliggendo ferite; se ne segnano di più sparando al corpo e ancora di più colpendo il bersaglio alla testa. Il sangue esce a fiotti e il tessuto cerebrale schizza su tutto lo schermo.

E’ stato riscontrato, infatti, che i giovani che passano molto tempo davanti ai videogiochi che esaltano la violenza, alimentano in sé ribellione e atteggiamenti ostili verso genitori, istituzioni e autorità.
Con tutta questa violenza, e con l’assenza sistematica dei genitori, impegnati ad affrontare difficoltà economiche di sopravvivenza, i bambini si ritrovano a sostituire il modello e i punti di riferimento della famiglia, con gli squallidi personaggi virtuali presi dai cartoon, dallo spettacolo, dal cinema, dalla musica e dall’intrattenimento in generale. Privi di un serio modello, lasciati soli e in balia di un sistema mediatico improntato sulla violenza e la libera pornografia, i giovani si desensibilizzano moralmente e culturalmente.

Se, dunque, non viene esercitato un dovuto controllo sui programmi e sui giochi che i bambini assorbono, quando questi saranno adolescenti, o anche prima, avranno sviluppato in sé comportamenti apatici, ripetitivi, irrazionali, violenti e soprattutto aggressivi, trovandosi altresì isolati dalla società, senza capacità di socializzazione.

I giovani fanno parte di questo mondo e di questa natura umana, quindi hanno la loro quota di aggressività negativa che va controllata.


E’ cos’ da sempre e sempre sarà. Ciò che si può fare però è educarli, affinché riescano ad inserirsi positivamente nella vita sociale. Una delle prime necessità psicologiche del bambino e dell’adolescente, è quella di avere chiari modelli di riferimento per strutturare la propria personalità ed imitare comportamenti adeguati. Questo è il percorso di crescita di cui tutti i giovani hanno bisogno e che in qualche misura richiedono.


E’ chiaro che gli adulti cercheranno di trasmettere regole sociali e valori da rispettare che favoriscano l’adattamento al mondo in cui si vive. Ma se il mondo, la società, gli adulti, la stessa famiglia e la scuola, danno di sé un’immagine aggressiva o di eccessiva tolleranza e indifferenza di fronte all’aggressività, non potranno non trasmettere questo contenuto e questo modello negativo ai giovani, aumentando le loro difficoltà di adattamento e quelle di chi deve educarli alle regole sociali e all’autocontrollo.

Può darsi che l’origine dei problemi dei giovani d’oggi, è da ricercarsi in un’azione educativa troppo blanda, permissiva, che ha prodotto effetti negativi sui ragazzi sia sul piano della chiusura relazionale che di quello della trasgressione.


L’incapacità giovanile di frenare gli impulsi, di negoziare i conflitti, di esprimere in maniera chiara un contrasto, di sentirsi responsabili delle proprie azioni, di riflettere sulle conseguenze dei propri atti, ha come causa generale l’incapacità di molti adulti (nella società, nella scuola e nella famiglia) di trasmettere queste competenze, in quanto carenti loro stessi di queste abilità basilari nella vita di ogni persona.


Carenze che hanno una loro spiegazione nella difficoltà degli educatori nel modo di comunicare, di essere presenti, di dire dei no, di proporre dei modelli positivi, di assumere un ruolo di guida e di riferimento deciso, forte. E’ la diffusione di una cultura e di una società adulta in cui tutto sembra essere permesso, che cerca di evitare le responsabilità individuali, anche tra i giovani.


E’ necessario, dunque, che gli adulti riprendano il loro ruolo di educatori, che sappiano fornire un’identità ai giovani! Ovviamente, il ruolo centrale rimane sempre quello della famiglia. Purtroppo, pare che i genitori di questa generazione siano troppo “impegnati” con la carriera secolare, le cene con gli amici, la Coppa dei Campioni, quella della Nazionale, la palestra, la lampada abbronzante, … Insomma, troppi “impegni”! E per i loro figli chi ci pensa? Bè, la loro educazione è stata delegata, prima alla televisione, poi a internet e infine alla scuola.
L’aggressività degli adolescenti, la loro irrequietezza e impulsività, è legata quindi alla individuale capacità di autocontrollo che hanno saputo sviluppare e al freno che i genitori e la famiglia hanno saputo mettere ai loro comportamenti. In mancanza di questo freno è importante che anche la società nel suo insieme sia capace di far rispettare le proprie regole ponendosi come modello.

Se questo non avviene, se i modelli spesso non ci sono o sono negativi, se non scattano sanzioni certe rispetto alle azioni trasgressive, se gli adulti non intervengono a stigmatizzare le azioni di prepotenza e di delinquenza, allora è facile che i giovani tengano poco in considerazione questi limiti, non preoccupandosi delle conseguenze che potrebbero subire.


Se la scuola, ad esempio, sottovalutasse il fenomeno del bullismo, delle prepotenze continuate in classe, non prendendosi carico di quelle azioni che potrebbero contrastarlo, allora sarà facile che in quella scuola si sviluppi una cultura della sopraffazione e della impunibilità. Anche per strada, se di fronte a piccole trasgressioni, molestie, o a vere e proprie azioni delinquenziali, il cittadino comune non facesse sentire la sua voce, o ancora meglio non provasse ad intervenire per contrastare tali azioni, è chiaro che un tale messaggio di indifferenza, paura, condizionamento, diventerebbe un esempio di impunità per i giovani.


In conclusione, non è solo perché l’aggressività è qualitativamente e quantitativamente diversa rispetto al passato, che si può pensare che i giovani di oggi siano aggressivi, violenti e pericolosi. Osservando i giovani possiamo dire che questi sono in parte il prodotto della società odierna, del suo grado di complessità, delle incertezze che vive, di un futuro che oggi ha pochi punti di riferimento stabili. I giovani d’oggi rispecchiano esattamente la società in cui vivono.
L’aggressività dei giovani, il loro vivere senza limiti, la loro impulsività, non è altro che il prodotto di una società in trasformazione, che in parte non ha saputo trasmettere, nella famiglia e nella convivenza civile, autocontrollo, autorevolezza e rispetto delle regole, che non ha saputo proporre modelli costruttivi, che non ha saputo dare loro l’attenzione necessaria ed evitare quelle modalità educative che hanno invece rinforzato gli atteggiamenti trasgressivi.

Fortunatamente, però, nonostante questa visione “pessimistica” della realtà giovanile del nostro tempo, sono più frequenti i momenti dove prevale la ricchezza di esperienze positive, il piacere della socializzazione con il gruppo, il riuscire a dimostrare di valere a scuola, nel lavoro e nella vita, la voglia di conoscere il mondo, la capacità di produrre azioni di solidarietà e di attenzione al prossimo.


Il disagio giovanile non è dunque una caratteristica che riguarda tutti i giovani d’oggi, ma è l’espressione di una vita problematica di una parte di loro (abuso e dipendenza da droghe, anoressia, bulimia, comportamenti antisociali, forti difficoltà relazionali e familiari) che si innesca in quelle difficoltà adolescenziali tipiche di ogni epoca e in quelle specifiche della società in cui vivono.


Le difficoltà adolescenziali hanno una necessità evolutiva ed esistenziale, senza le quali il percorso di crescita non si svilupperebbe appieno, ma verso la quale la collettività e la famiglia devono saper rispondere con attenzione per adempiere appieno al loro ruolo.



Pubblicato sulla Rivista InStoria del 7 Luglio - n.7 (XXXVIII)

Calamità naturali: chi è il responsabile?

Calamità naturali
CHI E' il responsabile?

di Carlo Siracusa

Tragedie come la catastrofe provocata dallo Tsunami in Asia, avvenuta nel dicembre del 2004, che ha ucciso circa 300.000 persone, o l’uragano Katrina, che nell’agosto del 2005 ha colpito il sud degli Stati Uniti , distruggendo interi paesi e uccidendo 970 persone… sicuramente ci coinvolgono, se non direttamente, ci provano emotivamente.

In questi casi, non è insolito sentire commenti in cui si coinvolge Dio nella questione, chiedendo: “perché non interviene; perché permette che accadano cose del genere?”

Per capire le motivazioni che inducono la gente ad esprimere pensieri così forti, prendendosela con Dio, quasi fosse il responsabile di questi eventi, notate qual è il tipo di risposta che alcuni “addetti ai lavori” danno a quanti chiedono: “perché Dio non interviene?”. Un vescovo cattolico, alla domanda "Dov'era Dio?" quando lo tsunami seminava distruzione e morte, rispose: "Dio ci ama. Dio è sempre con noi. Noi non sappiamo perché succedono questi fatti. Ma sappiamo di sicuro che anche da queste tristi vicende Dio può trarre il bene".

Davanti a una dichiarazione del genere, è assolutamente comprensibile che la gente si chieda: ‘ma quale bene può trarre Dio dalla morte e dalla distruzione? E quale bene possono trarne i parenti delle vittime, o chi è rimasto in mezzo a una strada, perché ha perso tutto ciò che si era fatto nel corso di una vita?

Cercano di dare conforto dicendo: “si faccia la volontà di Dio”, oppure: “Dio sta mettendo alla prova la nostra fede”, ma non si rendono conto che in tal modo presentano Dio come un essere insensibile, sadico, crudele. Per questo, migliaia di persone si allontanano sempre di più dalla fede, vedendo una netta contraddizione: da una parte la Bibbia, che descrive il Creatore come un Dio d’amore, dall’altra calamità e terremoti, attribuiti a Dio, quali unità di misura per quantificare la grandezza della nostra fede!

Come stanno le cose? E’ davvero Dio il responsabile dei disastri e delle calamità?

Secondo studi scientifici, alcuni ricercatori hanno notato che il tasso delle catastrofi naturali, negli ultimi anni è aumentato notevolmente: sia nella frequenza che nella distruttività. Si è riscontrato, inoltre, che le vittime non dipendono tanto dalla potenza distruttiva della calamità in sé stessa, quanto dalla condizione in cui vivono le persone! Infatti, di solito, ad averne la peggio, sono proprio quelli che vivono nei paesi più poveri.

Uno dei fattori che determina l’aumento delle vittime, in occasione delle calamità, è la crescita demografica, che è tipica dei paesi poveri. E poi c’è il fatto che spesso la gente non tiene conto degli avvertimenti. Secondo un sociologo, le responsabilità che ha l’uomo, in questi casi, non sono indifferenti: le forze della natura possono innescare il cataclisma, ma la responsabilità relativa al numero delle vittime e all’entità dei danni è da attribuirsi all’attività dell’uomo in campo sociale, economico e politico. Sarebbe necessario poter modificare le circostanze che non lasciano alle persone altra scelta che vivere in zone a rischio o in modi che rovinano l’ambiente.

In realtà, lo stato di salute del nostro pianeta, dipende molto dalle attività dell’uomo:

- L’abuso dell’ambiente: il disboscamento, che provoca frane, terremoti;

- L’inquinamento: distrugge l’ecosistema, scatenando quelle che poi chiamiamo ‘calamità naturali’, ma che di fatto sono delle manifestazioni di difesa della terra, contro le violenze e le forzature provocate dall’uomo. Ha contribuito persino all’aumento delle malattie tumorali, legate al buco dell’ozono, per il mancato filtraggio dei raggi ultravioletti;

- Il modo di vivere della gente: che costruisce nei pressi del letto di un torrente, sui vulcani, vicino alle dighe; (vedi ad esempio l’esperienza della Valle del Vajont, nel 1963).

La terra è un pianeta attivo, e l’attività vulcanica lo dimostra: questa è essenziale, in quanto funge da valvola di sfogo! La terra ha il suo codice genetico, il suo “DNA”: quando l’uomo cerca di modificarlo, intervenendo contro la natura stessa, la terra reagisce ribellandosi, e manifestando la sua ribellione attraverso maremoti, uragani, terremoti, frane: segni di un malessere che vive l’ambiente. Attribuire, dunque, le responsabilità a Dio, è mancanza di conoscenza e superstizione, che hanno portato molti a credere in questi eventi della natura, come se fossero castighi di Dio.

E’ vero che la Bibbia parla dei disastri e delle calamità, come di un “segno dei tempi”! - (Ap. 6:5-8)

Ma, il fatto che le Scritture profetizzavano l’avvento di catastrofi e disastri provocati dalle forze della natura, non vuol dire che sia Dio a provocarli e a volerli!

Un genitore può prevedere la fine che farà il proprio figlio, vedendo le compagnie malsane che frequenta; anche un meteorologo può prevedere il tempo di domani, sulla base delle correnti e dei venti. Questo non significa però che il genitore o il meteorologo abbiano voluto o siano in qualche modo responsabili di ciò che hanno previsto. Allo stesso modo, Dio può aver determinato in anticipo l’esito di ciò che sarà, a motivo della sua onniscienza. (Is. 46:9,10) Le calamità non sono eventi voluti e causati da Dio, ma sono eventi previsti, annunciati, a motivo della tendenza dell’uomo nelle scelte che fa e nelle opere che compie. Non è onesto quindi, attribuire a Dio responsabilità che invece appartengono all’uomo, il quale, farebbe bene a soppesarne l’entità e la gravità, piuttosto che scaricarle a Dio, quale capro espiatorio!

Qualcuno però, ha sollevato un’opportuna osservazione: la Bibbia non narra di calamità naturali come il diluvio, la pioggia di fuoco e zolfo su Sodoma e Gomorra, o le dieci piaghe d’Egitto? Queste calamità, non accaddero per volere di Dio? Come si fa, dunque, a stabilire i parametri per determinare se quello specifico evento sia opera di Dio o no?

Dobbiamo partire dal presupposto che i castighi summenzionati, descritti nella Bibbia come causati o voluti da Dio, sono sempre preceduti da un avvertimento e da specifiche istruzioni su come salvarsi per sopravvivere all’evento apocalittico. A titolo d’esempio, analizziamo il racconto del diluvio, e vediamo in che modo questa specifica calamità risulti differente rispetto ai disastri comuni, chiamati ‘calamità naturali’:

1. Scopo della calamità punitiva: “… la malvagità degli uomini era grande sulla terra e il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo”. (Gn 6:5)

2. Non fu una punizione indiscriminata: “Noè trovò grazia agli occhi del Signore”. (Gn 6:8)

3. L’evento fu preannunciato: “Ecco, io sto per far venire il diluvio delle acque sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni essere in cui è alito di vita; tutto quello che è sulla terra perirà”. (Gn 6: 17)

4. Dio concesse una via di scampo: “Ma io stabilirò il mio patto con te; tu entrerai nell'arca: tu e i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli con te”. (Gn 6:18)

Anche Gesù evidenziò che, il diluvio e il fuoco piovuto dal cielo su Sodoma e Gomorra, furono eventi voluti e provocati da Dio, per uno scopo ben preciso. Ciò non significa però che ogni cataclisma, ogni disastro o calamità sia da Dio, o che ne sia in qualche modo responsabile!

Se guardassimo con maggior attenzione ai bisogni del pianeta in cui viviamo, sicuramente non avremmo motivo di scomodare Dio, addossandogli responsabilità che non Gli appartengono, e questo sguardo attento ci aiuterebbe a fare azioni concrete per ristabilire questo pianeta, ormai in prognosi riservata.



Pubblicato sulla Rivista InStoria dell'8 Agosto 2008 (XXXIX)