martedì 12 ottobre 2010

I nostri pensieri ... la loro influenza nella nostra salute



I nostri pensieri ...
la loro influenza nella nostra salute.


di Carlo Siracusa


Un saggio dell’antichità scrisse: “lo spirito abbattuto secca le ossa”. In realtà, i nostri pensieri hanno un’influenza sul nostro corpo, sulla nostra salute, sui nostri comportamenti, sui nostri stati d’animo, e di conseguenza, anche sui risultati che otteniamo nella vita. La nostra mente e i nostri pensieri sono fortemente collegati al sistema nervoso e immunitario del nostro organismo, ed hanno un effetto sul nostro equilibrio biochimico, diventando la nostra realtà soggettiva.

Vi è mai capitato, ad esempio, di avere la sensazione di non riuscire a completare una frase perché vi si blocca il respiro per l’emozione? Forse pensate di non essere all’altezza della situazione, di non essere capaci di esprimervi davanti a un pubblico, e cominciate a provare sensazioni che vi fanno star male: sentite come un pugno nello stomaco, un blocco all’altezza del diaframma, una palpitazione cardiaca accelerata. Ebbene, sapevate che tutto questo dipende proprio dai nostri pensieri? Ogni pensiero negativo ha un effetto boomerang, e ricade su di noi. Partendo dal centro del cervello, ogni pensiero passa attraverso il corpo, utilizzando come via il sistema nervoso, ripercuotendosi nel plesso solare, ed esercitando una contrazione nell’addome. E’ lì che sentiamo la forza della negatività. Ne consegue che all’organismo giungono comandi errati che producono vibrazioni negative, e creano l’ambiente adatto per un’aggressione al nostro corpo e la disarmonia del nostro spirito.
Per la nostra mente è molto più facile pensare in negativo piuttosto che in positivo. Pensare positivo richiede sforzo, allenamento, impegno, mentre, per la nostra mente, pensare negativo è più naturale.

Immaginate di dover superare una prova, un esame, o dover fare qualcosa che crea una certa ansietà, pensando di non farcela. E’ spontaneo cercare di dominare la situazione dicendo a se stessi: “non devo agitarmi ”. Purtroppo, il comando che arriva al nostro cervello è l’esatto contrario di ciò che abbiamo pensato. Dire: “non devo agitarmi”, per la nostra mente vuol dire “agitarsi”, in quanto il modo in cui abbiamo formulato il pensiero, ha creato un’immagine in negativo, facendoci pensare ciò che non vogliamo, piuttosto che visualizzare la realizzazione di ciò che davvero desideriamo. E’ così che somatizziamo i pensieri, ed è così che, concentrandoci sulla paura di fallire … ci garantiamo inevitabilmente il fallimento!
Inconsciamente, siamo noi stessi che disegniamo la nostra immagine, proprio come un pittore dipinge il suo quadro; ma i nostri pennelli sono i nostri pensieri, i nostri sentimenti e le azioni che ne conseguono. E' al presente che disegniamo l'immagine futura del nostro corpo e la salute del nostro organismo. Se riconosciamo, pertanto, che il nostro spirito ha in sé una sofferenza, un malessere interiore, è saggio lavorarci sopra, per capire cosa c'è dietro, cercando di andare direttamente alla radice del problema. Non lasciamo che i nostri pensieri ci tolgano la pace, ma individuiamoli e affrontiamoli. E' attraverso l'autoconoscenza che impariamo a dominarci e diveniamo padroni dei nostri pensieri e dei sentimenti interiori, ciò che a volte domina l’intera persona, portandola ad una condizione di vera e propria malattia psicosomatica.
Osservandoci, e studiando anche i nostri atteggiamenti, conosceremo meglio ciò che causa disagio e sofferenza in noi, conoscendo persino le ragioni intrinseche che ci inducono istintivamente a comportamenti come: incrociare le gambe, mettere le mani in tasca, cercare un punto d’appoggio, o incrociare le braccia. Questi atteggiamenti involontari, non avvengono per caso, ma sono provocati dal mondo delle nostre sensazioni, che generano, tra l’altro, una sorta di emozione dell’ansia che cambia il ritmo del nostro respiro, del battito cardiaco, al punto che la nostra mente non distingue più cose vividamente immaginate da cose realmente vissute. Molte volte, questa situazione porta a sentirsi male fisicamente, avvelenandoci anche nello spirito. Una volta che impariamo ad assumere il controllo dei nostri pensieri, miglioreremo la qualità della nostra vita, migliorandone l’equilibrio, dando il meglio di noi stessi ed evitando tutto ciò che in noi crea disarmonia.
Quando ci troviamo davanti a un problema che riguarda la nostra salute, la tendenza immediata che abbiamo è quella di rivolgerci al medico di famiglia o allo specialista, sperando che ci prescrivi un farmaco che possa ridurre i sintomi del nostro malessere. Tuttavia, trattamenti generici o specifici, riferiti al corpo, possono portare aiuto e sollievo solo temporaneamente, in quanto, la radice del male interiore che c’è in noi non viene strappata via definitivamente, ma viene solo ricoperta, nascosta, per riaffiorare in seguito, alla prima occasione.

L’esperienza ci insegna che, prima di manifestarsi, una malattia grave è preceduta da tutta una serie di disturbi che indicano che c’è qualcosa che non va: febbre continua, dolori, nausea, … sintomi che vogliono indicarci la causa del problema, prima ancora che la malattia si manifesti interamente. D’alto canto, nella stragrande maggioranza dei casi, è stato riscontrato che, anni prima che una certa malattia si manifestasse in modo grave, è accaduto qualcosa di traumatico: una forte delusione, un evento sconvolgente, un disaccordo familiare irrisolto, un torto ricevuto senza averlo mai perdonato, trascinandolo con sé per anni. La persona ha quindi ricevuto degli impulsi negativi che, invece di elaborarli e risolverli, li ha repressi, fino al punto che le ghiandole del corpo non riescono più a svolgere la loro attività in modo ottimale, e si ammalano, talune volte anche in modo grave, causando un infarto e persino il cancro.
Anche se non tutte le malattie possono essere attribuite a una pena o una ad una preoccupazione continua, un pensiero costante che ci causa stress, uno spirito aggressivo o pessimista, (vedi ad esempio le malattie congenite), … tuttavia, questi fattori possono consumare il nostro organismo, in quanto, i nervi contratti, producono sostanze tossiche che agiscono in modo estremamente nocivo sulla nostra salute.

Di cosa abbiamo bisogno per ammalarci di meno? Innanzi tutto di un atteggiamento positivo della vita. Invece di farci sopraffare dalle cose negative, ricordiamoci che, in ogni cosa negativa c’è anche un aspetto positivo. Sforziamoci di trovare il particolare positivo in ogni situazione e in ogni contrarietà. Abbandoniamo le paure ingiustificate, le preoccupazioni alimentate da pensieri negativi, e impariamo a sviluppare fiducia in noi stessi, evitando gli inutili complessi di inferiorità dovuti al nostro paragonarci agli altri. Siamo il motore della nostra vita e siamo, quindi, noi stessi gli artefici del nostro destino. Alla fine, ognuno raccoglierà ciò che ha seminato precedentemente. Sviluppiamo una sana consapevolezza di ciò che siamo, non colpevolizzandoci per ogni cosa, ma guardando alla vita con fiducia.
Paura, odio, rabbia, gelosia, invidia,… spesso sono la causa dei nostri malesseri interiori e dei pensieri che consumano la nostra mente, le nostre forze, il nostro corpo.

Immaginate uno stagno, senza un afflusso e un deflusso d’acqua: si formano alghe e l’acqua comincia a puzzare. Nel momento in cui si crea la giusta condizione, facendo affluire e defluire nuovamente altra acqua, lo stagno gradatamente si ripulirà.
Il nostro organismo funziona allo stesso modo: nel momento in cui il nostro spirito non emana una corrente di energia vitale, e si ristagna nel nostro corpo, cominciano ad accumularsi le tossine che creano e sviluppano disturbi e malattie.
Lasciamo fluire, dunque, energia positiva, dentro di noi, controllando i pensieri, i sentimenti e le emozioni, affinché abbiano una ripercussione positiva sul nostro organismo, riducendo lo stress, rilassando il flusso sanguigno e garantendoci una salute equilibrata e sana, nonostante tutto.

sabato 2 ottobre 2010

Intervista al Prof. Ferdinando Catalano


di Carlo Siracusa


E’ stato un vero piacere incontrare il Prof. Ferdinando Catalano, “figlio” per nascita, della città di Messina, e intervistarlo per il nostro Editoriale. Il Prof. Catalano è nato a Messina nell’agosto del 1947, ma vive da molti anni in provincia di Bergamo. Nel 1970 si è laureato in Fisica presso l’Università degli Studi di Messina , e ha ottenuto l’abilitazione all’insegnamento della fisica e della matematica. Svolge la professione di fisico e ricercatore nel campo dell’ottica oftalmica; è stato docente universitario di Optometria presso l’Università del Molise ed è attualmente professore associato di Laboratorio di Ottica presso l’Università degli Studi di Padova. E’ autore di diversi testi universitari e di numerosi articoli scientifici. Ha studiato i metodi di datazione radiometrica in paleoantropologia e le implicazioni tra fisica e teoria dell’evoluzione biologica. Ha tenuto numerose conferenze pubbliche a livello internazionale, ed ha coniugato le sue competenze scientifiche con lo studio e la ricerca sulle origini dell’universo e della vita, a sostegno del creazionismo, passione per la quale ha scritto libri come: “La vita e il respiro e ogni cosa” e “Insegnaci a contare i nostri giorni”.

Prof. Catalano, come prima cosa desidero chiederLe da quanto tempo ha lasciato la città di Messina, e se c’è un ricordo o qualcosa che lo lega particolarmente alla sua città natale?

In pratica dal 1970, subito dopo la laurea ho fatto il militare a Rimini e poi sono andato a Bergamo ad insegnare. Da allora torno saltuariamente a Messina dove ho ancora una sorella. La città è completamente cambiata sia nell’assetto urbano che nello spirito che anima la gente, ma quel tratto di mare da fare col traghetto tra la sponda calabra e quella sicula ha sempre lo stesso fascino, lo stesso profumo e lo stesso colore. Provo ancora le stesse emozioni quando cominciano ad intravedersi i contorni delle case e delle strade e un’angoscia struggente, al ritorno, quando si dileguano.

Di solito gli studiosi con una formazione accademica come la sua, propendono per una concezione ateistica, a sostegno della teoria dell’evoluzione. Come mai Lei si interessa al creazionismo? Da cosa scaturisce questo suo interesse?

Nel 1975 mi fu data l’occasione di mettere in discussione le mie convinzioni scientifiche con il racconto biblico della creazione. Mettendo da parte ogni pregiudizio “ scientista” mi resi conto che, nella sostanza, la descrizione che il Genesi fa della nascita dell’Universo, della sua evoluzione , del processo di formazione del nostro pianeta e della comparsa della vita sono basilarmente coerenti con ciò che la cosmologia ha da dire a riguardo. Fu per me un’autentica rivelazione, una folgorazione sulla via di Damasco , decisi di approfondire e da allora in questi 35 anni non ho mai smesso di studiare questo argomento. Naturalmente la prospettiva creazionista ha coinvolto anche altri interessi di natura spirituale e la mia relazione con il sacro.

Lei ha scritto un saggio sui metodi di datazione radiometrica: cosa c’entra con il creazionismo?

C’entra nella misura in cui i fossili di ominidi come l’Uomo di Neanderthal, Cro-Magnon, Homo Sapiens sono datati nell’ordine di 200 – 300 mila anni e oltre , i pre-ominidi come l’Australopiteco arrivano ai 3-4 milioni di anni fa. Quello che molta gente non sa è che con il metodo del C14 e successivi perfezionamenti, si può datare direttamente un reperto fossile fino a circa 10 periodi di dimezzamento, in pratica per il C14 fino a circa 60.000 anni fa. Quindi se un fossile ominide è datato , per esempio, 200.000 anni BP ( Before Present , ndr) ciò vuol dire che la datazione è indiretta e si riferisce non al reperto ma all’età del sito geologico in cui è stato rinvenuto il campione. Ed è qui che si introduce un vizio sperimentale: cosa ci permette di stabilire che i mattoni di una casa hanno la stessa età di chi ci abita?

D’accordo, questo mi sembra chiaro, ma non vedo ancora il nesso col creazionismo

Se si studia la cronologia dei patriarchi partendo da date storicamente affidabili, si può far risalire la comparsa del genere umano sulla Terra a circa 6000 anni fa. Come vede, se l’Uomo di Neanderthal, Cro-Magnon e Homo Sapiens Sapiens sono i lontani cugini di Adamo , i conti non tornano, o sbaglia la Bibbia o il metodo di datazione. Su questo argomento avrei molte altre cose da dire ma questa è solo un’intervista.

Qual è secondo Lei il punto più debole della teoria dell’evoluzione?


Nel merito strettamente scientifico non ha alcuna spiegazione credibile e sperimentalmente verificabile circa l’origine della vita, solo ipotesi che però non reggono al vaglio delle leggi della termodinamica e della teoria dell’informazione. Sul piano epistemologico questa teoria si sottrae – la convinzione non è solo mia – al criterio di falsificabilità di Popper mediante il quale si può stabilire se una teoria è veramente scientifica.

Il creazionismo, ce l’ha un suo punto debole?


Si, è lo stesso vizio epistemologico dell’evoluzionismo, non può essere sottoposto al criterio di falsificabilità quindi non è una teoria scientifica. Insomma se Popper ha ragione, qualsiasi riferimento ad un intervento divino rende l’ ipotesi creazionista non falsificabile in quanto non esiste alcuna possibilità empirica di confutare un’affermazione riguardante Dio e i suoi interventi sulla materia .Ma ai cristiani non viene chiesto di credere nella creazione divina sulla base della sola evidenza scientifica. L’epistemologia cristiana non si fonda sulla biologia ma sulla Rivelazione e lascia agli evoluzionisti l’onere della prova, secondo l’antico adagio “ Ei incumbit probatio qui dicit , non qui negat” ( l’onere della prova è a carico di chi afferma non di chi nega, ndr )

Qual è in Italia la situazione attuale del dibattito scientifico tra evoluzionismo e creazionismo?

Siamo assolutamente molto indietro rispetto ad altri paesi ( penso ad esempio al movimento dell’Intelligent Design e ai suoi strepitosi successi in moltissime università straniere) e il confronto scientifico è fortemente avversato soprattutto nelle sedi accademiche dove esiste una situazione di totale monopolio culturale dei sostenitori dell’evoluzione biologica. Per tutte, basterebbe ricordare la reazione violenta a mezzo stampa dell’intellighenzia evoluzionista alla conferenza organizzata l’anno scorso dal Prof. De Mattei, vicepresidente del CNR, , nel pieno delle celebrazioni del bicentenario darwiniano, sul tramonto dell’evoluzionismo.

Ora io penso che se l’Università italiana si dichiara culturalmente e politicamente laica ed equidistante, allora dovrebbe essere aperta e favorire il dibattito tra le due visioni del mondo, ma non è così. Ogni tentativo di proporre, non di imporre, una visione alternativa a quella evoluzionista viene visto come una profanazione del Sancta Sanctorum della vera scienza. Chi si azzarda a rendere pubbliche le falle e le contraddizioni della teoria evoluzionista viene immediatamente tacciato di ignoranza.

Le faccio due nomi illustri: Piergiorgio Odifreddi e Antonino Zichichi. Quali considerazioni può fare sulle loro posizioni?

Non a caso lei ha indicato proprio i paradigmi italiani delle due opposte visioni della realtà.

Mi inchino doverosamente dinanzi alla cultura matematica del prof. Odifreddi, il Richard Dawkins italiano, ma negli ultimi anni la sua visibilità mediatica ( lo ribattezzerei “Il Matematico Onnipresente”) è diventata direttamente proporzionale all’esigenza, tutta italiana, di arginare l’invasione del pensiero creazionista . I suoi saggi anticristiani e su Darwin (posso dirlo perché li ho letti) hanno sconfinato su materie non sue . Se pretende di demolire la Bibbia leggendola come fosse un testo di matematica allora mostra tutti i limiti della sua preparazione storica e teologica. Quel che infastidisce e travalica il dibattito non è la sua posizione di ateo quanto il sistematico attacco alle persone più che alle loro idee .

Sul fronte opposto il Prof. Zichichi – è una mia impressione – è stato messo a tacere dai media proprio per la sua nota posizione di antievoluzionista e di credente. Lo scienziato siciliano muove le sue critiche attingendo dai fondamenti della scienza e assegna alla teoria dell’evoluzione un grado di credibilità al di sotto del terzo ed ultimo livello , quello dei fenomeni che si sono verificati una sola volta e di cui rimangono tracce verificabili. L’evoluzione darwiniana non raggiunge nemmeno questo livello di credibilità in quanto mancano del tutto le testimonianze fossili di questo processo. Siamo completamente al di fuori della scienza galileiana.

Cosa direbbe a un ateo o a un evoluzionista?

Se la teoria evoluzionista avesse una solida base scientifica , allora dovrebbe avere carattere predittivo cioè essere in grado di predire il valore esatto dei tempi che caratterizzano questo processo. Invece i sostenitori di questa teoria non hanno la minima idea di come impostarne le basi matematiche. Per semplificare, possono dirci in base a quale equazione matematica si può prevedere quale sarà l’evoluzione della specie umana diciamo tra 500.000 anni? No. Pur tuttavia continuano a sostenere la scientificità di questa teoria.

Sul piano dialettico, li inviterei a riflettere seriamente sul fatto che illustri scienziati atei professano ora apertamente di avere forti dubbi su questa teoria o addirittura di non ritenerla più una teoria scientifica come recentemente hanno fatto due “addetti ai lavori” del calibro di Massimo Piattelli Palmarini e Jerry Fodor (Gli errori di Darwin - Ed. Feltrinelli). Li inviterei a limitare il terreno del confronto alle sole questioni scientifiche sperimentalmente verificabili .

Agli atei vorrei dire che anche loro sono delle persone religiose in quanto “diversamente credenti”. Anche loro si genuflettono dinanzi al loro dio , il “dio Caso onnipotente creatore e signore del cielo e della Terra”

A conclusione di questa intervista, vorrebbe dire qualcosa ai lettori del nostro Magazine?

Intanto ringrazio lei e la Redazione di Magazine per avermi consentito di esprimere liberamente il mio pensiero. Ai lettori vorrei dire che, a dispetto di quanto i mezzi di divulgazione lasciano credere, esiste una profonda crisi scientifica e filosofica dell’evoluzionismo ai massimi livelli accademici ma che per diverse ragioni (economiche, ideologiche e politiche) viene taciuta al grande pubblico.

E da ultimo vorrei ricordare, se mai qualcuno se ne fosse dimenticato, che la vera scienza , quella sperimentale e galileiana è nata in Occidente nel cuore della Cristianità.

Grazie Prof. Catalano per la sua gentile concessione, e per aver condiviso con noi argomenti di così grande spessore scientifico.

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Le radici del pregiudizio


di Carlo Siracusa



L’articolo 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di conoscenza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Un nobile ideale, che tuttavia trova difficile applicazione, viste le discriminazioni che conosciamo nelle sue diverse forme: dal colore della pelle alla religione, dal ceto sociale alla condizione economica, dalla mancanza di istruzione al tipo di lavoro che si svolge. In un’epoca di globalizzazione, dove il fenomeno di crescita progressiva delle relazioni e degli scambi a livello mondiale è diventato una cosa comune, ci sono ancora manifestazioni di pregiudizio, sia a livello individuale che collettivo.
Come si acquisisce il pregiudizio? E’ possibile che forme di pregiudizio ingiustificato si annidino dentro di noi? Come possiamo estirparlo?

Secondo l’etimologia del termine, per “pregiudizio” - prae iudicium, “prima-giudizio” - s’intende l’espressione di un giudizio prematuro, basato su informazioni insufficienti, su una conoscenza parziale e incompleta. Di solito si tratta di opinioni personali, idee precostituite e preconcette che possono essere acquisite sin dall’infanzia, durante le prime fasi della socializzazione, sulla base dell’atteggiamento dei genitori. I bambini tendono ad imitare ciò che fanno i propri genitori, punto di riferimento nella formazione della propria personalità. La possibilità che i pregiudizi possano crearsi in momenti successivi all’infanzia, sono tanto più veri se si considera l’influenza che hanno i mass-media. Nel periodo formativo, bombardati da una serie di messaggi provenienti dalla televisione, dalle riviste, si possono generare nei ragazzi atteggiamenti discriminatori nei confronti di un gruppo.*

Anche durante la vita adulta, gratificazioni e competizioni possono ingenerare pregiudizi. La competizione tra gruppi non avviene solo per l’approvvigionamento, ma anche in difesa della propria identità sociale. Quando si è introdotti in un gruppo, si prende consapevolezza di appartenervi, con un conseguente senso di sicurezza che dà la sensazione di valere e di essere protetti. Il desiderio di salvaguardare la propria identità sociale, è ciò che fa scaturire competizione e pregiudizio nei confronti delle altre appartenenze, degli altri gruppi. E’ tendenza comune, negli appartenenti a un gruppo, creare al suo interno omogeneità, assomigliandosi sempre di più negli atteggiamenti, nelle opinioni, accentuando le proprie differenze rispetto agli altri gruppi, così da differenziarsi ulteriormente. Ciascun membro tende a sviluppare atteggiamenti di autocompiacimento che lo portano a ritenersi migliore o addirittura superiore agli altri. Questo atteggiamento sortisce un rafforzamento della propria autostima; chiunque la pensi differentemente, costituisce una minaccia alla propria autostima. E’ in questo modo che l’identità sociale prende il sopravvento sull’identità personale, al punto che, anche il diverso, non viene visto come individuo a sé, ma come appartenente ad un gruppo.

Anche gli stereotipi possono dar luogo all’insorgenza di pregiudizi, influenzando parte delle nostre azioni quotidiane. Benché possano avere un valore sociale, tuttavia bisogna considerarli con una certa prudenza, in quanto possono indurci a valutare le persone non per quello che sono, ma in funzione della loro appartenenza, della loro personalità, per i valori, le motivazioni e le capacità intellettive che li accomunano o li differenziano. E’ così che si creano gli stereotipi, quelle configurazioni che vengono applicate generalmente a interi gruppi o categorie di persone, che una volta classificate, è difficile modificare, e ancor più difficile eliminare.
Capita spesso di osservare gli appartenenti ad un gruppo etnico diverso dal nostro (gente di colore, cinesi, senegalesi…), i quali appaiono ai nostri occhi come indistinguibili, sia negli aspetti somatici, come nel comportamento, negli atteggiamenti, e nel modo di pensare. Questa incapacità di distinguere i singoli individui, percependoli come categorie o gruppi sociali, viene definita in ambito psicologico “effetto di omogeneità”, poiché non si guada loro come a singoli individui, con la propria diversità e la propria personalità, ma in termini di categorie sociali, di gruppi diversi, sviluppando inevitabilmente una forma di pregiudizio verso tutti quelli che appartengono ad una diversa categoria sociale.
Molto spesso, a far nascere e riprodurre tali pregiudizi, concorre la diffusione attraverso il linguaggio o comunicazione sociale, attraverso la quale esprimiamo, manifestiamo e diffondiamo i pregiudizi, rendendoli a volte un luogo comune.

Non è per niente facile demolire un pregiudizio. Tuttavia, per riuscire a smorzarlo, per sradicarlo almeno dal nostro cuore, occorre trapiantare in noi istruzione, conoscenza e informazione. Questi elementi costituiscono l’arma principale per combatterlo. Dopo di che, occorre esaminare i nostri stessi atteggiamenti, perchè il pregiudizio è “un atteggiamento”.


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*Per gruppo s’intende un insieme di persone aggregate, le quali possono formare una famiglia,un clan, una razza, un’etnia, una religione, un partito.
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Articolo pubblicato su Instoria: http://www.instoria.it/home/origini_pregiudizio.htm

MCS: Sensibilità Chimica Multipla


la malattia del secolo che pochi ancora conoscono

di Carlo Siracusa



E’ una patologia sociale, assai diffusa, ma poco conosciuta. Chi ne è affetto, probabilmente ha immaginato di avere una sorta di intolleranza alimentare o di essere un soggetto allergico, tuttavia, nonostante gli accorgimenti del caso, gli antistaminici e le flebo per disintossicarsi, il problema è rimasto irrisolto. In Italia c’è ancora molta ignoranza in materia, tanto che in talune circostanze, la malattia è stata associata addirittura a problemi di tipo psichiatrico.

I sintomi variano: può trattarsi di frequenti mal di testa, disturbi della digestione, dolori articolari, disturbi della vista, dermatite, rinite, asma, stanchezza cronica, e altro ancora. Le cause sono da ricercarsi negli ambienti in cui viviamo, dall’aperta campagna, alla nostra camera da letto.
L’elevato tasso di inquinamento ambientale e le innumerevoli sostanze tossiche che respiriamo, portano a danni irreversibili. Secondo gli esperti, il nervo olfattivo, connesso direttamente al cervello, porta all’infiammazione dell’ipotalamo, creando danni a tutto il sistema immunitario. Tuttavia, questa patologia non è una reazione olfattiva, una risposta agli odori che i nostri recettori olfattivi respirano, ma è una reazione alle sostanze chimiche.

L’MCS è una malattia metabolica che scaturisce da una forma di ipersensibilità dovuta all’esposizione di sostanze di natura chimica come: profumi, detersivi, solventi, ammorbidenti, deodoranti, insetticidi, pesticidi, concimi, antiparassitari, fertilizzanti, vernici, … La complessità della malattia è data dalla soggettività della sindrome, tanto che trovare un trattamento specifico per la patologia è a dir poco difficilissimo. Ironia della sorte, a volte gli stessi medicinali, piuttosto che curare, aggravano la patologia, per via di certe sostanze nocive presenti nei farmaci. Molte volte, le stesse protesi dentali, con l’amalgama contenente mercurio, usata comunemente per l’otturazione delle carie, se non vengono rimosse, possono intossicare il paziente, visto che alla base presenta un difetto del sistema immunitario con una componente genetica e ambientale.

L’MCS è una malattia progressiva, che porta a uno stato infiammatorio con danni irreversibili all’organismo, e la possibile insorgenza di patologie più gravi come infarto, ictus, cancro, sclerosi multipla, morbo di Parkinson.
Da studi effettuati, si è riscontrato che il maggior numero di malati di MCS si ha nelle zone con un maggior tasso di inquinamento. Quotidianamente vengono riversate nell’aria e nell’acqua, veleni di ogni tipo, che aggrediscono il nostro sistema immunitario, alterandolo, perché non più in grado di rispondere all’insulto costante che riceve dalle sostanze chimiche e farmacologiche presenti negli alimenti e nell’ambiente.

Riduciamo al massimo la contaminazione da veleni che indeboliscono le nostre difese immunitarie, facendo arieggiare sempre gli ambienti di casa e del luogo di lavoro, evitando l’utilizzo di detergenti aggressivi, deodoranti per ambienti, e prestando attenzione a quei prodotti che contengono formaldeide, sostanza tossica presente nelle vernici, nelle colle e nei mobili nuovi.

Fuori di casa è quasi impossibile evitare la contaminazione da sostanze nocive, ma un malato di MCS deve decontaminare l’ambiente domestico in cui vive, perché gli effetti cumulativi di tali esposizioni sono invalidanti. Più ci si espone ad ambienti con sostanze irritanti e più invalidante e difficile diventa la qualità di vita. Per guarire da questa patologia, non servono farmaci, perché potrebbero peggiorare le condizioni di un organismo di per sé già compromesso. Ciò che occorre è respirar sano insieme a una sana alimentazione, evitando il più possibile tutto ciò che contamina.
Auguriamoci che le Autorità preposte si azionino per il riconoscimento di questa patologia, tutelando la salute dei malati di MCS.

Cos'è un Leader e come si esercita la Leadership?



di Carlo Siracusa




Leader si nasce o si diventa?
Ciò che fa un leader è dato dall'autorità derivante dalla posizione gerarchica?
In che modo l'esercizio della propria leadership può determinare la produttività di un gruppo?
La leadership si basa sull'esercizio del potere?

La storia abbonda di personaggi leader che, con grande carisma, sono riusciti a coinvolgere e a farsi seguire da moltitudini di persone. Per citarne qualcuno, possiamo menzionare: Alessandro Magno, Gesù Cristo indiscutibilmente uno dei più grandi, Napoleone, Winston Churchill, Martin Luther King, Gandhi, Mussolini, Fidel Castro, ed altri ancora che hanno contribuito a scrivere pezzi di storia dell'umanità, chi in bene chi in male. Si parla anche di leader di partito, leader di maggioranza, personaggi che possiedono delle qualità che li contraddistinguono in qualche modo da altri. Un leader sarà in grado di esercitare la propria leadership quando avrà ottenuto la collaborazione degli altri, senza dover ricorrere all'esercizio del potere.
Cosa distingue un leader da un non leader?
Comunemente si pensa che leader si nasca, ma in verità, benché alcune persone possiedono innate le qualità fondamentali di un leader, tuttavia la leadership si può imparare e le qualità che si possiedono possono essere affinate e sviluppate per utilizzarle al meglio. L'acquisizione di questa particolare abilità è un processo di crescita, fatto di errori e tentativi, di sconfitte e di vittorie.
Leader non è chi ama o esercita un potere comandando e manipolando la gente; il vero leader non ha bisogno di creare consenso, non deve essere dotato necessariamente di particolare carisma, né si trova al vertice di una piramide, e non è neanche interprete di atti coraggiosi o d'immagine.
Il leader nutre rispetto per gli altri e cerca di capire le loro aspirazioni e i loro effettivi bisogni. Non ha bisogno di spiccate doti oratorie o di sguardi magnetici, perché la vera leadership non è il risultato di doti speciali, ma è data dalla profonda convinzione delle azioni che si compiono e degli obiettivi da raggiungere. Ciò che aiuterà un leader ad esercitare con efficacia la leadership di un gruppo, sarà la sua forte sensibilità per il fattore umano. In ambito aziendale, alcuni fattori su cui prestare attenzione sono: saper infondere fiducia agli altri, guadagnandosi la credibilità del gruppo grazie al proprio esempio (i dipendenti delle aziende sono sempre più attenti a ciò che fanno i loro capi, piuttosto che a quello che dicono); avere un'efficace capacità di comunicazione, di persuasione e di trasmissione d'entusiasmo; permettere e incoraggiare i componenti del gruppo ad assumersi responsabilità operative e decisionali; essere in grado di far sentire gli altri importanti e in controllo della situazione; incoraggiare e sviluppare l'autostima e la propensione allo sviluppo personale dei singoli individui.
Uno dei malesseri più diffusi nelle aziende è la demotivazione, a qualunque livello nella gerarchia aziendale. In Italia, secondo un'indagine, il 90% degli impiegati ha rivelato di non impegnarsi al massimo, e meno del 10% si è detto disposto a sforzarsi per compiere il proprio lavoro al meglio.
Questa mancanza di motivazione non è altro che un inquietante segno della mancanza di leadership. E' inutile dire che, un dipendente motivato e rispettato, sarà senza dubbio un dipendente più produttivo. Quando il leader di un gruppo non è capace di creare un corpo dipendente affiatato, responsabilizzato e motivato, se ne accorgerà dall'abbassarsi della produttività. Perché la produttività cresca, sarà necessario che il leader garantisca tutti e tre i fattori. Basta tralasciarne uno dei tre, e la produttività ne risentirà. Anche a livello di amicizia, quando le relazioni interpersonali non sono appropriatamente mediate dall'esercizio della leadership, la produttività torna ad abbassarsi.
La leadership è la capacità di far sprigionare da ogni individuo un potenziale energetico, la capacità di ispirare le persone a trasformare le intenzioni in realtà, e a non vedere nel cambiamento una minaccia, ma una sfida eccitante.
La leadership è un saggio impiego del potere, espressione di una volontà percepita come forza tesa alla promozione delle persone del gruppo. Favorisce la responsabilizzazione individuale per il raggiungimento di obiettivi superiori, permettendo il potere decisionale ad ogni livello.
Uno dei compiti del leader è quello di assicurare un progressivo avvicinamento verso i valori, i bisogni individuali e aziendali, infondendo all'interno dell'organizzazione e in ogni sua fibra fiducia, rispetto e autostima.
Purtroppo il concetto di condivisione dei valori a tutti i livelli è ancora ignoto in Italia, dove molto spesso i vertici non esitano a gestire l'azienda con autoritarismo. Esso non deve essere confuso con l'autorità che si basa sul riconoscimento da parte della collettività dell'utilità, diritto o necessità che qualcuno emani comandi volti a orientare le azioni dei suoi dipendenti. Quando un amministratore o un direttore generale che non sono dei leader, si basano esclusivamente sull'autoritarismo o sull'autorità per gestire l'azienda, questo esercizio del potere non ha nulla a che vedere con l'esercizio di vera leadership.
Effettivamente, nel nostro Paese c’è scarsità di personaggi con capacità di leadership. In parte dipende dalla mancata formazione data nelle scuole di business, forse troppo incentrate nella gestione delle aziende in termini economico-finanziari, dando poca attenzione alle risorse umane e al fattore umano che sempre è in gioco quando si stabiliscono rapporti interpersonali. C’è da dire inoltre che spesso coloro che esprimono innate doti di leadership non sono certo incoraggiati, anzi in alcuni casi il loro sviluppo professionale viene bloccato e certamente saranno privilegiati negli avanzamenti di carriera coloro che si adeguano maggiormente allo stile di management tradizionale fatto di autorità e spesso anche di autoritarismo. Se la situazione è preoccupante nel privato, di certo nel pubblico assume connotazioni ancora peggiori.
Ora che ci troviamo in piena globalizzazione e la concorrenza è mondiale, le imprese hanno assoluto bisogno della giusta combinazione di management e leadership. Speriamo serva da stimolo per una crescita di qualità nel contesto delle aziende italiane e per lo sviluppo di nuove corporations di successo.

“ALPHA”- IL MASCHIO DOMINANTE


di Carlo Siracusa



La principale dottrina filosofica di Friedrich Nietzsche, quella del “Superuomo”, esalta l'uomo, capace di andare oltre l'uomo comune, un uomo i cui valori sono la salute, la volontà forte, l'amore per la vita e un nuovo orgoglio: la capacità di saper dire di sì a se stessi, facendo a meno persino di Dio, perché il Superuomo diventa il dio di sé. Nietzsche proclama dunque la “morte di Dio”, perché il Superuomo non deve dar conto ad altri fuorché a se stesso. Questi è l'incarnazione della volontà di potenza.
Nel paradigma sociale, la figura del Superuomo di Nietzsche, per certi versi, può essere affiancata al maschio dominante, conosciuto anche come “maschio alpha” - termine etologico riferito ai capibranco del mondo animale, dei quali il lupo è l'esempio per eccellenza, come vedremo più avanti - e incarna l'atteggiamento e il comportamento del tipo di maschio ambito nel mondo del business, dove l'essere il capobranco è una vera e propria sindrome, dove l'ego individuale e il desiderio di autorità, caratterizzano la sua personalità.
Il maschio dominante trasuda un alto livello di autostima e fiducia in sé; mantiene le proprie emozioni sotto controllo; è sempre il primo della classe, in grado di prendere decisioni per altri; è capace di controllare tutte le cose in base alla sua volontà e di sottomettere e far obbedire altri subordinati; anche se non ha le qualità di leadership naturale, tuttavia almeno all'apparenza mostra d'essere un leader, piuttosto che un seguace.
Il maschio alpha è un uomo vincente, un soggetto con spiccate qualità psico-fisiche che non sopporta avere punti deboli. Cura l'immagine del suo corpo e ogni dettaglio del suo aspetto fisico. Spesso si tratta di una persona attraente, la cui vita è caratterizzata dall’energia, dal coraggio, dall'ambizione e dalla brillantezza di idee. Questo tipo di maschio si nutre di adrenalina: sentirla scorrere nelle sue vene è un bisogno fisico necessario, costante. Combatte per avere successo in tutti i campi della vita, a qualunque costo, e assai spesso questo tipo di maschio assume posizioni di primo piano, nel lavoro come nella società. Il “maschio dominante” è il tipo di maschio desiderato dalle donne, guardato come modello dagli stessi uomini, trascinatore per il suo carisma e con la capacità di non perdersi d'animo. Come diceva la pubblicità di un noto profumo maschile, è il maschio “che non deve chiedere...mai!" Il maschio che tutti vorrebbero essere! Anche se, tra “maschio” e “uomo” ... può esserci una sostanziale differenza!
Ma spostiamoci nel mondo animale, precisamente all'interno di un branco di lupi, dove il maschio più forte e dominante è il maschio alpha, il capobranco, da cui deriva il termine usato per descrivere il tipo di persona in oggetto. Prendere in esame il comportamento del capobranco nella struttura sociale dei lupi, ci aiuterà a conoscere meglio la personalità del maschio alpha, per sapere e capire come trattare con lui e come farsi trattare.
I lupi vivono in branchi da 4 a 20 soggetti circa, e insieme cacciano, allevano i cuccioli e difendono il loro territorio. Il branco è organizzato in modo gerarchico. Il maschio alpha è quello che guida il gruppo e, generalmente, sceglie come compagna una femmina di tipo “alpha”, alla quale è lasciato lo spazio di esercitare la sua autorità sulle altre femmine. Eppure, in alcuni casi, sono state osservate situazioni in cui la femmina alpha ha preso il controllo dell'intero branco, mostrando che essere un “alpha” non è prerogativa assoluta del mondo maschile.
Le gerarchie del maschio e della femmina dei lupi, sono interdipendenti, e sono mantenute da complesse e a volte aggressive manifestazioni di predominio e di sottomissione.
Ciò che caratterizza lo status sociale del maschio o della femmina dominante, è la piena libertà che si ha nello scegliere cosa e quando fare, dove e quando andare. In alcuni branchi, il maschio “alpha” è l'unico che ha la possibilità di riprodursi, o quello che ha il diritto a saziarsi per primo. La tendenza del branco, è quella di seguire il loro “capo”, che si distingue per il successo nella caccia delle prede, nella riproduzione, nel mantenere calma e stabilità all'interno del branco, nel proteggere dagli stranieri, nel marcare il territorio, e nello scegliere i sistemi di difesa e le strategie di caccia. Cambiamenti all'interno del branco, potrebbero mettere in discussione la sua posizione di leader dominante. Ma la perdita di grado di solito avviene a causa di vecchiaia, malattie, ferite, maturità sessuale, alleanze, che possono contribuire ad elevare o abbassare lo status di un soggetto. Ad esempio, il lupo più vecchio può scegliere di lasciare il proprio posto quando entra in scena un pretendente motivato, evitando così lotte e spargimenti di sangue. Ma davanti a una sfida, sceglierà la lotta, perché il maschio dimostra la sua forza attraverso la violenza e gli ormoni. Alla fine, l’animale che uscirà sconfitto nello scontro, verrà cacciato dal branco, oppure, come avviene nelle stagioni degli accoppiamenti, può essere ucciso dagli altri lupi, per la sua ribellione.
Non sempre il capobranco è un maschio alpha a motivo della sua forza o per la sua aggressività. Spesso, ciò che fa di un lupo il “maschio dominante”, è la sua capacità di avere nel suo branco le femmine più attraenti, la sua capacità di compromesso, per ridurre al minimo gli attriti con gli altri compagni di gruppo.
La loro scala sociale arriva fino al maschio omega, il ruolo più basso e sottomesso nella gerarchia del branco, soggetto al maggior numero di aggressioni e crudeltà, e disposto a sopportare dimostrazioni di forza e sottomissione da parte degli altri componenti del branco, piuttosto che rischiare la fame. I lupi più forti, coraggiosi e astuti non accettano questo ruolo di buon grado, per cui vivono in uno stato di continuo conflitto, tra l'esigenza di rimanere nella struttura organizzata del branco, e la volontà di risalire la scala gerarchica, sfidando quelli di rango superiore attraverso sguardi, suoni e odori.
Come abbiamo visto, il maschio alpha del branco dei lupi, presenta pochissime differenze rispetto al maschio dominante degli umani: entrambi combattono per la propria posizione dominante; entrambi hanno il desiderio di controllo generale; entrambi operano all'interno di un branco. Infatti, la personalità del maschio dominante evita la solitudine, perché ama stare in gruppo, e gli piace muoversi insieme al “branco”, ambiente in cui è apprezzato e la cui figura dominante viene esaltata.
Nella società odierna, il maschio alpha è spesso un bell'uomo, ha una condizione socio-economica relativamente alta, è un leader carismatico capace di coinvolgere, sa riconoscere le opportunità al volo, segue l'istinto, è infaticabile, un grande stratega, non molla finché non ha raggiunto i risultati. Insomma, appare come una sorta di semidio. Tuttavia, alle sue caratteristiche brillanti, corrispondono altrettanti aspetti meno piacevoli, che influiscono nei rapporti interpersonali, specie quando il maschio dominante è il tuo datore di lavoro o il tuo coniuge.
Come si affronta il maschio alpha in ambito lavorativo? Un suo sottoposto trova facile e piacevole accondiscendere alla sua volontà, o si ribella? In tal caso, quali possono essere le conseguenze?
Come abbiamo visto nella descrizione del comportamento dei lupi, il maschio alpha domina il branco e non lascia ad altri spazio per emergere, poiché una tale concessione svilirebbe la sua posizione e lascerebbe posto a dei rivali. Quando nel branco infatti sono presenti elementi che manifestano spiccate qualità, questi troveranno difficile rimanere nella struttura del branco, e la loro permanenza sarà un continuo conflitto, a meno che lasciano il branco per andare a vivere come lupi solitari o diventare il capo di un altro branco.
Ugualmente, per garantirsi continuità in un ambiente di lavoro in cui il capo è un maschio dominante, bisogna essere abbastanza tosti per competere con lui, e ciò sarà possibile essendo determinati, chiari e diretti, qualità che il maschio alpha apprezza di buon grado. In tal caso non guarderà a quel soggetto come a un possibile rivale o uno che cerca di sminuirne la posizione, ma vedrà l'interesse verso la crescita e lo sviluppo del gruppo o del “branco” di cui egli è il capo indiscusso. Una volta conquistato il rispetto del capo, il gioco è fatto: a quel punto il maschio dominante diventerà protettivo e farà da mentore alla sua pupilla (o pupillo che sia). Non è facile lavorare al fianco di un maschio alpha, perché nonostante le sue spiccate qualità, a volte l'eccessiva sicurezza di sé può fargli perdere il senso della realtà, può renderlo controverso, impaziente, esigente, difficile da trattare e aggressivo. Il più delle volte, i maschi alpha cercano occupazioni che richiedono eccezionali capacità fisiche o che abbiano un fattore di rischio significativo, in modo da mantenere alto il livello del testosterone. Questo continuo mettere alla prova se stessi e le proprie capacità, sviluppa in loro una smodata fiducia di sé e delle proprie doti da leader.
Chi potrà ammansire l'impeto prorompente di un maschio dominante? Sicuramente una donna che ricopra lo stesso ruolo di potere, una femmina di tipo alpha. Per tenergli testa, deve saper competere, deve mostrarsi femminile e “maschia” nello stesso tempo, virile e tenace. Nel “branco” c'è posto anche per gli ultimi, perché la loro debolezza o timidezza serve ad esaltare le capacità e la brillantezza del maschio dominante. Ma dovranno accontentarsi di fare anche da zerbino, s'è necessario, in tal caso il loro posto sarà garantito e protetto, nessuno potrà togliere la loro porzione, dagli avanzi della preda.
Se non è così facile avere a che fare con un maschio dominante nel contesto lavorativo, figuriamoci come sarà viverci in casa. Spesso questi uomini sono critici su ogni minimo dettaglio e pretendono dalla loro compagna quanto vorrebbero da una loro dipendente.
Dominanza e controllo, fanno parte dell'essenza del maschio alpha. Ma un vero leader deve avere la capacità di emergere e prendere il comando della situazione, esercitando la propria leadership grazie alla collaborazione degli altri, senza ricorrere all'esercizio del potere. Il leader, a differenza del maschio dominante, ha il suo seguito non perché è l'interprete di atti particolarmente coraggiosi o “d'immagine” ma bensì perché nutre rispetto per gli altri e si preoccupa di comprendere le loro aspirazioni e i loro bisogni. Per riuscire a esercitare efficacemente la leadership di un gruppo, è indispensabile una fortissima sensibilità per il fattore umano, infondendo negli elementi che compongono la sua organizzazione: fiducia, rispetto reciproco e autostima.
In un prossimo articolo approfondiremo la figura del vero leader e come si esercita la leadership.