mercoledì 29 luglio 2009

Le Gargolle: i mostri di pietra

Le Gargolle
I mostri di pietra del Duomo di Siena
di Carlo Siracusa


Sarà capitato anche a voi di osservare con curiosità, quelle strane forme sporgenti, quelle figure demoniache, con facce gioconde, metà uomini e metà bestie, che si affacciano dall’ imponente facciata del Duomo di Siena e del Palazzo del Municipio sito nella famosa piazza del Palio. Queste creature ibride sono presenti anche in altre chiese e cattedrali medievali. Le più famose si trovano presso la Chiesa di Notre Dame di Parigi, come anche nel centro di Oxford, o nel Duomo di Milano.

Questi mostri grotteschi e inquietanti si chiamano “gargolle”, dal latino gurgulium, termine che indica il rumore o ‘gorgoglio’ dell’acqua, che proviene dal doccione, la parte finale dello scarico per l’acqua piovana che protende dal cornicione o dal tetto, per lasciare scorrere l’acqua lontano dai muri, e non rovinare così la facciata e le sue ornamentali decorazioni. La loro funzione, oltre ad essere decorativa e dal significato mistico e scaramantico, era quella di fare scorrere l'acqua piovana delle grondaie lungo la loro schiena o all'interno della scultura stessa, per farla defluire dalla bocca. Queste pietre ornamentali furono molto utilizzate nel corso del Medioevo; si ritrovano spesso all'esterno di municipi, chiese e cattedrali dell'epoca, e hanno la forma di animali alati, con teste dalle forme più strane.

Le prime gargolle risalgono intorno al X secolo, quando si iniziò a costruire in pietra la parte terminale del canale di scarico esterno delle grondaie. Fu la fantasia medievale a dare a queste pietre sporgenti, forme nuove e diverse, rappresentando mostri e creature animali ibridi, a metà tra gli uccelli e i mostri delle favole. Ma qual è l’origine di queste creature?

Queste forme, così impressionanti e strane, trovano la loro origine nella simbologia biblica e attigono dall’universo pagano e dal bestiario medievale – Physiologus – libro illustrato contenente la descrizione di animali fantastici provenienti da terre lontane. Sono anche immagini alchemiche dei quattro elementi: la pietra dalla quale sono ricavate, l'acqua che fuoriesce dalle loro bocche, l'aria dell'altezza dove si affacciano, il fuoco della luce che si addensa negl’incavi, scavando attorno a sé ombre profonde.
Circa le ragioni della loro presenza in edifici religiosi come le chiese della cristianità, sono state avanzate diverse interpretazioni: per alcuni le “gargolle” sono sculture rappresentanti mostri spaventevoli, allo scopo di tenere lontani gli spiriti malvagi dai luoghi di culto, una sorta di scaccia demoni; per altri, invece, rappresentavano un invito ad entrare in quell’edificio, per rifuggire dagli spiriti maligni che dimorano al suo esterno.

Molti ritenevano queste creature delle vere e proprie divinità, e la loro presenza ha
impedito persino il saccheggio di chiese e cattedrali, visto il timore che incutevano. Dal momento che la maggior parte della popolazione era analfabeta, la chiesa cattolica dell’epoca riteneva che, a motivo del suo impatto visivo così forte, una gargolla avrebbe esercitato un potere ancora più forte, permettendo così che le loro dottrine assumessero un valore di timore reverenziale.

C’è poi l’antica leggenda, nata sulle rive della Senna, famoso fiume che attraversa la Francia, che racconta di un mostro spaventevole, con le ali e il corpo di un rettile, una sorta di drago, chiamato per l’appunto “Gargouille”. In una grotta vicino al fiume c’era la sua dimora, e questa bestia riusciva a calmarsi solo grazie alle offerte sacrificali che gli venivano fatte di anno in anno, fin tanto che un sacerdote, il futuro arcivescovo di Rouen (città del Nord-Ovest della Francia), dopo averlo esorcizzato, lo imprigionò legandolo con la sua stessa tonaca, e alla fine fu bruciato su un rogo. Il collo e la testa del mostro non si consumarono col fuoco, così furono staccate dal resto del corpo ed esposte sulle mura di Rouen, divenendo così il primo modello di gargolle.

Nel XIII secolo l’utilizzo delle gargolle aumentò notevolmente, e man mano si realizzarono forme sempre più elaborate e strane: se inizialmente veniva scolpita solo la parte relativa al busto della creatura mostruosa, col tempo si passò a scolpirla per intero, con espressioni sempre più tipiche a una caricatura animale grottesca, avvinghiata alla facciata dell’edificio.
Col passare dei secoli, queste mistiche figure in pietra hanno perso la loro funzione originaria e si sono trasformati in elementi decorativi fini a se stessi.

Thomas Hardy, poeta e scrittore inglese (1840-1928), nel suo "Via dalla pazza folla”, descrive così una gargolla o “gargoyle” (secondo il linguaggio anglosassone):<<…Troppo umano per dirsi drago, troppo diabolico per esser uomo, troppo animale per esser demone e troppo poco uccello per chiamarsi grifone, quest'orribile essere di pietra sembra coperto di una pelle grinzosa, le orecchie corte e dritte, gli occhi fuori dalle orbite, le dita adunche che tirano i lati della bocca così da render più facile il passaggio dell'acqua che esso vomita … sta lì aggrappato da quattrocento anni a sghignazzare al mondo: in silenzio, se c'è bel tempo, sbuffando e gorgogliando nei giorni di pioggia.>>

Nel nostro tempo la Disney ha preso spunto da questi “mostri di pietra” per dare vita a film come “Il gobbo di Notre Dame”; ha prodotto anche una serie animata intitolata Gargoyles, i cui protagonisti sono esseri antropomorfi dai colori differenti, capaci di volare e dotati di forza sovrumana. Di giorno, a seguito di una maledizione, si tramutano in pietra, mentre di notte tornano in vita e proteggono il castello del loro signore.

Le gargolle sono, dunque, pietre intagliate, che uniscono l’arte alla storia e la religione alla superstizione.


articolo pubblicato nella Rivista: Quaderni di percorsi storici - GBeditoria (Roma)

Aggressività giovanile: l'espressione di un disagio



Aggressività giovanile
l'espressione di un disagio

di Carlo Siracusa

Lo scenario in cui oggi è protagonista la figura del giovane adolescente del nostro Paese, è una società che sta evolvendosi verso un sistema sempre più indipendente, dove ciascuno pretende la propria autonomia, pur non avendo gli elementi, le competenze e le garanzie necessarie per dimostrare di essere in grado di saper dirigere se stessi; una società che guarda ai diritti, trascurando i doveri; una società che ha mutato i valori, cambiando l’illegalità in legalità, e ciò ch’era ritenuto immorale in “nuova moralità”; una società in cui istituzioni fondamentali come la scuola e la religione, hanno perso la loro forza morale, lasciando i giovani senza una guida, smarriti, privi di orientamento morale e di fiducia in se stessi.

Nell’ambito di questa situazione generale va inquadrata, sicuramente, anche la crisi della famiglia. L’istituzione familiare ha subito nel corso dei secoli una notevole evoluzione. La famiglia, un tempo ritenuta il nucleo della società, oggi viene considerata un’istituzione superata, da più parti contestata e respinta, dando spazio a nuove congetture di convivenza, come i cosiddetti “DICO”, o le “unioni di fatto” , che consentirebbero anche a persone dello stesso sesso di costituire o, direi meglio, ‘scimmiottare’ quella che, sin dalla comparsa dell’uomo sulla terra, è sempre stata la Famiglia, nel pieno senso del termine. Le ragioni per cui la ‘famiglia’ sta perdendo il suo significato emblematico, sono molteplici e legati intimamente fra loro: fine della società contadina; sgretolamento della famiglia patriarcale; contestazioni femministe; sviluppo di un’educazione consumista; insubordinazione dei figli; disinteresse dello Stato.

La donna, ad esempio, dopo secoli di sudditanza, ha rivendicato i propri diritti, la propria legittima autonomia dall’uomo, sino a qualche decennio fa, somma autorità della famiglia, spesso dispotica. A questo proposito il movimento femminista ha svolto, sostenuto da una grande maggioranza di donne stanche e deluse, un’opera preziosa anche se talvolta scoordinata e non sempre costruttiva. La donna ha avvertito il bisogno di inserirsi attivamente nella società, di compiere le stesse esperienze dell’uomo, di evitare una mortificante emarginazione dal mondo del lavoro, della politica e della cultura. Ciò ha provocato le prime insofferenze, la crisi della coppia, lo scricchiolamento della millenaria autorità maschile, di colui che un tempo era il pater familias.

Questa evoluzione ha portato l’uomo al disorientamento, causando una confusione di ruoli, forse salutare, ma ansiogena, con la difficoltà a rimodellare la propria identità in risposta ai mutamenti culturali, mutamenti che hanno coinvolto inevitabilmente anche i giovani, i figli, un tempo completamente subordinati al padre, quasi schiacciati dalla sua autorità. Se, comunque, l’istruzione di massa ha reso i giovani culturalmente superiori, nello stesso tempo, hanno finito col non riconoscere più la figura genitoriale del padre, la guida, il modello esistenziale e culturale da imitare, reso evanescente dai mutamenti socioeconomici avvenuti negli ultimi tempi. Di conseguenza, i giovani hanno cercato di estraniarsi dalla famiglia, guardando alla figura del genitore, come a un limitatore dell’autonomia personale.

Sulla base dei fattori menzionati sopra, ritengo, dunque, che la crisi della famiglia sia imputabile essenzialmente a un mutato rapporto di forze. E se da una parte, questa crisi ha provocato uno sconvolgimento che si ripercuote negativamente nel comportamento dei giovani, dall’altra ha rappresentato anche un’opportunità, un fatto positivo, in quanto, ha messo in discussione rapporti sbagliati e ingiusti, sedimentatisi nel corso dei secoli, imponendo così la necessità di un cambiamento che, speriamo, porti nel tempo a un giusto equilibrio, nelle posizioni e nei ruoli, di coloro che formano la famiglia.

Come nel caso della famiglia, anche la società ha modificato i suoi schemi, e i giovani hanno modificato il loro atteggiamento verso se stessi, verso la società e verso il mondo. Questo “mutamento generale”, ha sviluppato quel fenomeno che si sta diffondendo con grande rapidità, e che vede giovani provenienti da ogni ceto sociale, manifestare un’aggressività che sfiora la violenza. Purtroppo i genitori hanno sempre meno tempo; la mancanza di tempo porta a una scarsa comunicativa con i figli, di conseguenza questo a sua volta comporta nei giovani, la difficoltà e l’incapacità di comunicare, insieme a un’autentica mancanza di autostima.

A volte, i modelli istiganti all’aggressività, possono trovarsi involontariamente proprio nell’ambito della stessa famiglia: un genitore che, ad esempio, picchia il figlio, propone a quest’ultimo un modello di comportamento improntato alla punizione. Si è riscontrato. Infatti, che un principio di aggressività, i giovani lo manifestano all’interno della propria famiglia, soprattutto quando il genitore non si prende il tempo di ascoltarli.

Per illustrare opportunamente la situazione, che vede in stretta correlazione l’esigenza che i genitori sappiano ascoltare i propri figli, e le reazioni impulsive, aggressive o violente che questi ultimi manifestano, visualizziamo la seguente scena: un genitore, sentendo i figli litigare nella loro stanza, si precipita per vedere cosa sta succedendo. Nell’attimo in cui entra nella stanza dei ragazzi, vede uno dei due inveire contro l’altro, dandogli pugni e spintoni. La tendenza immediata del genitore è quella di fermare e punire il figlio che è stato visto scalpitare dando pugni all’altro. In queste circostanze il genitore reagisce rimproverando, dando forse punizioni, gridando. Chi ci assicura, però, che il bambino trovato nell’attimo in cui reagisce, non stia rispondendo a una provocazione dell’altro?


Da questo esempio, comprendiamo l’esigenza che i genitori imparino ad ascoltare i propri figli, piuttosto che reagire con punizioni e urla, onde evitare che la conseguenza immediata del figlio, sia la necessità di dare sfogo a questa “incomprensione” o “disagio”, che nasce già nell’ambito familiare, e trova nel tempo le sue manifestazioni in atti di aggressività, forme di bullismo e azioni violente nei confronti degli altri, spesso allo scopo di impedire la prevaricazione dei propri diritti.
Altre cause, che proprio come in un processo di corrosione per stillicidio, goccia su goccia, contribuiscono a corrodere nei giovani i giusti valori morali, scatenando in loro quelle manifestazioni di aggressività che stanno preoccupando seriamente sia l’opinione pubblica che le autorità, devono ricercarsi nell’uso (o abuso) che viene fatto di strumenti tecnologici come la televisione, i telefonini e i videogiochi.

E’ risaputo che, una lunga esposizione all’osservazione di spettacoli e video, apparentemente innocui, ma con esplicite immagini di sangue e violenza, mette in atto nei giovani un processo di desensibilizzazione della loro coscienza nei confronti della violenza reale, alimentando in loro abitudini aggressive. In alcuni videogiochi, ad esempio, si segnano punti infliggendo ferite; se ne segnano di più sparando al corpo e ancora di più colpendo il bersaglio alla testa. Il sangue esce a fiotti e il tessuto cerebrale schizza su tutto lo schermo.

E’ stato riscontrato, infatti, che i giovani che passano molto tempo davanti ai videogiochi che esaltano la violenza, alimentano in sé ribellione e atteggiamenti ostili verso genitori, istituzioni e autorità.
Con tutta questa violenza, e con l’assenza sistematica dei genitori, impegnati ad affrontare difficoltà economiche di sopravvivenza, i bambini si ritrovano a sostituire il modello e i punti di riferimento della famiglia, con gli squallidi personaggi virtuali presi dai cartoon, dallo spettacolo, dal cinema, dalla musica e dall’intrattenimento in generale. Privi di un serio modello, lasciati soli e in balia di un sistema mediatico improntato sulla violenza e la libera pornografia, i giovani si desensibilizzano moralmente e culturalmente.

Se, dunque, non viene esercitato un dovuto controllo sui programmi e sui giochi che i bambini assorbono, quando questi saranno adolescenti, o anche prima, avranno sviluppato in sé comportamenti apatici, ripetitivi, irrazionali, violenti e soprattutto aggressivi, trovandosi altresì isolati dalla società, senza capacità di socializzazione.

I giovani fanno parte di questo mondo e di questa natura umana, quindi hanno la loro quota di aggressività negativa che va controllata.


E’ cos’ da sempre e sempre sarà. Ciò che si può fare però è educarli, affinché riescano ad inserirsi positivamente nella vita sociale. Una delle prime necessità psicologiche del bambino e dell’adolescente, è quella di avere chiari modelli di riferimento per strutturare la propria personalità ed imitare comportamenti adeguati. Questo è il percorso di crescita di cui tutti i giovani hanno bisogno e che in qualche misura richiedono.


E’ chiaro che gli adulti cercheranno di trasmettere regole sociali e valori da rispettare che favoriscano l’adattamento al mondo in cui si vive. Ma se il mondo, la società, gli adulti, la stessa famiglia e la scuola, danno di sé un’immagine aggressiva o di eccessiva tolleranza e indifferenza di fronte all’aggressività, non potranno non trasmettere questo contenuto e questo modello negativo ai giovani, aumentando le loro difficoltà di adattamento e quelle di chi deve educarli alle regole sociali e all’autocontrollo.

Può darsi che l’origine dei problemi dei giovani d’oggi, è da ricercarsi in un’azione educativa troppo blanda, permissiva, che ha prodotto effetti negativi sui ragazzi sia sul piano della chiusura relazionale che di quello della trasgressione.


L’incapacità giovanile di frenare gli impulsi, di negoziare i conflitti, di esprimere in maniera chiara un contrasto, di sentirsi responsabili delle proprie azioni, di riflettere sulle conseguenze dei propri atti, ha come causa generale l’incapacità di molti adulti (nella società, nella scuola e nella famiglia) di trasmettere queste competenze, in quanto carenti loro stessi di queste abilità basilari nella vita di ogni persona.


Carenze che hanno una loro spiegazione nella difficoltà degli educatori nel modo di comunicare, di essere presenti, di dire dei no, di proporre dei modelli positivi, di assumere un ruolo di guida e di riferimento deciso, forte. E’ la diffusione di una cultura e di una società adulta in cui tutto sembra essere permesso, che cerca di evitare le responsabilità individuali, anche tra i giovani.


E’ necessario, dunque, che gli adulti riprendano il loro ruolo di educatori, che sappiano fornire un’identità ai giovani! Ovviamente, il ruolo centrale rimane sempre quello della famiglia. Purtroppo, pare che i genitori di questa generazione siano troppo “impegnati” con la carriera secolare, le cene con gli amici, la Coppa dei Campioni, quella della Nazionale, la palestra, la lampada abbronzante, … Insomma, troppi “impegni”! E per i loro figli chi ci pensa? Bè, la loro educazione è stata delegata, prima alla televisione, poi a internet e infine alla scuola.
L’aggressività degli adolescenti, la loro irrequietezza e impulsività, è legata quindi alla individuale capacità di autocontrollo che hanno saputo sviluppare e al freno che i genitori e la famiglia hanno saputo mettere ai loro comportamenti. In mancanza di questo freno è importante che anche la società nel suo insieme sia capace di far rispettare le proprie regole ponendosi come modello.

Se questo non avviene, se i modelli spesso non ci sono o sono negativi, se non scattano sanzioni certe rispetto alle azioni trasgressive, se gli adulti non intervengono a stigmatizzare le azioni di prepotenza e di delinquenza, allora è facile che i giovani tengano poco in considerazione questi limiti, non preoccupandosi delle conseguenze che potrebbero subire.


Se la scuola, ad esempio, sottovalutasse il fenomeno del bullismo, delle prepotenze continuate in classe, non prendendosi carico di quelle azioni che potrebbero contrastarlo, allora sarà facile che in quella scuola si sviluppi una cultura della sopraffazione e della impunibilità. Anche per strada, se di fronte a piccole trasgressioni, molestie, o a vere e proprie azioni delinquenziali, il cittadino comune non facesse sentire la sua voce, o ancora meglio non provasse ad intervenire per contrastare tali azioni, è chiaro che un tale messaggio di indifferenza, paura, condizionamento, diventerebbe un esempio di impunità per i giovani.


In conclusione, non è solo perché l’aggressività è qualitativamente e quantitativamente diversa rispetto al passato, che si può pensare che i giovani di oggi siano aggressivi, violenti e pericolosi. Osservando i giovani possiamo dire che questi sono in parte il prodotto della società odierna, del suo grado di complessità, delle incertezze che vive, di un futuro che oggi ha pochi punti di riferimento stabili. I giovani d’oggi rispecchiano esattamente la società in cui vivono.
L’aggressività dei giovani, il loro vivere senza limiti, la loro impulsività, non è altro che il prodotto di una società in trasformazione, che in parte non ha saputo trasmettere, nella famiglia e nella convivenza civile, autocontrollo, autorevolezza e rispetto delle regole, che non ha saputo proporre modelli costruttivi, che non ha saputo dare loro l’attenzione necessaria ed evitare quelle modalità educative che hanno invece rinforzato gli atteggiamenti trasgressivi.

Fortunatamente, però, nonostante questa visione “pessimistica” della realtà giovanile del nostro tempo, sono più frequenti i momenti dove prevale la ricchezza di esperienze positive, il piacere della socializzazione con il gruppo, il riuscire a dimostrare di valere a scuola, nel lavoro e nella vita, la voglia di conoscere il mondo, la capacità di produrre azioni di solidarietà e di attenzione al prossimo.


Il disagio giovanile non è dunque una caratteristica che riguarda tutti i giovani d’oggi, ma è l’espressione di una vita problematica di una parte di loro (abuso e dipendenza da droghe, anoressia, bulimia, comportamenti antisociali, forti difficoltà relazionali e familiari) che si innesca in quelle difficoltà adolescenziali tipiche di ogni epoca e in quelle specifiche della società in cui vivono.


Le difficoltà adolescenziali hanno una necessità evolutiva ed esistenziale, senza le quali il percorso di crescita non si svilupperebbe appieno, ma verso la quale la collettività e la famiglia devono saper rispondere con attenzione per adempiere appieno al loro ruolo.



Pubblicato sulla Rivista InStoria del 7 Luglio - n.7 (XXXVIII)

Calamità naturali: chi è il responsabile?

Calamità naturali
CHI E' il responsabile?

di Carlo Siracusa

Tragedie come la catastrofe provocata dallo Tsunami in Asia, avvenuta nel dicembre del 2004, che ha ucciso circa 300.000 persone, o l’uragano Katrina, che nell’agosto del 2005 ha colpito il sud degli Stati Uniti , distruggendo interi paesi e uccidendo 970 persone… sicuramente ci coinvolgono, se non direttamente, ci provano emotivamente.

In questi casi, non è insolito sentire commenti in cui si coinvolge Dio nella questione, chiedendo: “perché non interviene; perché permette che accadano cose del genere?”

Per capire le motivazioni che inducono la gente ad esprimere pensieri così forti, prendendosela con Dio, quasi fosse il responsabile di questi eventi, notate qual è il tipo di risposta che alcuni “addetti ai lavori” danno a quanti chiedono: “perché Dio non interviene?”. Un vescovo cattolico, alla domanda "Dov'era Dio?" quando lo tsunami seminava distruzione e morte, rispose: "Dio ci ama. Dio è sempre con noi. Noi non sappiamo perché succedono questi fatti. Ma sappiamo di sicuro che anche da queste tristi vicende Dio può trarre il bene".

Davanti a una dichiarazione del genere, è assolutamente comprensibile che la gente si chieda: ‘ma quale bene può trarre Dio dalla morte e dalla distruzione? E quale bene possono trarne i parenti delle vittime, o chi è rimasto in mezzo a una strada, perché ha perso tutto ciò che si era fatto nel corso di una vita?

Cercano di dare conforto dicendo: “si faccia la volontà di Dio”, oppure: “Dio sta mettendo alla prova la nostra fede”, ma non si rendono conto che in tal modo presentano Dio come un essere insensibile, sadico, crudele. Per questo, migliaia di persone si allontanano sempre di più dalla fede, vedendo una netta contraddizione: da una parte la Bibbia, che descrive il Creatore come un Dio d’amore, dall’altra calamità e terremoti, attribuiti a Dio, quali unità di misura per quantificare la grandezza della nostra fede!

Come stanno le cose? E’ davvero Dio il responsabile dei disastri e delle calamità?

Secondo studi scientifici, alcuni ricercatori hanno notato che il tasso delle catastrofi naturali, negli ultimi anni è aumentato notevolmente: sia nella frequenza che nella distruttività. Si è riscontrato, inoltre, che le vittime non dipendono tanto dalla potenza distruttiva della calamità in sé stessa, quanto dalla condizione in cui vivono le persone! Infatti, di solito, ad averne la peggio, sono proprio quelli che vivono nei paesi più poveri.

Uno dei fattori che determina l’aumento delle vittime, in occasione delle calamità, è la crescita demografica, che è tipica dei paesi poveri. E poi c’è il fatto che spesso la gente non tiene conto degli avvertimenti. Secondo un sociologo, le responsabilità che ha l’uomo, in questi casi, non sono indifferenti: le forze della natura possono innescare il cataclisma, ma la responsabilità relativa al numero delle vittime e all’entità dei danni è da attribuirsi all’attività dell’uomo in campo sociale, economico e politico. Sarebbe necessario poter modificare le circostanze che non lasciano alle persone altra scelta che vivere in zone a rischio o in modi che rovinano l’ambiente.

In realtà, lo stato di salute del nostro pianeta, dipende molto dalle attività dell’uomo:

- L’abuso dell’ambiente: il disboscamento, che provoca frane, terremoti;

- L’inquinamento: distrugge l’ecosistema, scatenando quelle che poi chiamiamo ‘calamità naturali’, ma che di fatto sono delle manifestazioni di difesa della terra, contro le violenze e le forzature provocate dall’uomo. Ha contribuito persino all’aumento delle malattie tumorali, legate al buco dell’ozono, per il mancato filtraggio dei raggi ultravioletti;

- Il modo di vivere della gente: che costruisce nei pressi del letto di un torrente, sui vulcani, vicino alle dighe; (vedi ad esempio l’esperienza della Valle del Vajont, nel 1963).

La terra è un pianeta attivo, e l’attività vulcanica lo dimostra: questa è essenziale, in quanto funge da valvola di sfogo! La terra ha il suo codice genetico, il suo “DNA”: quando l’uomo cerca di modificarlo, intervenendo contro la natura stessa, la terra reagisce ribellandosi, e manifestando la sua ribellione attraverso maremoti, uragani, terremoti, frane: segni di un malessere che vive l’ambiente. Attribuire, dunque, le responsabilità a Dio, è mancanza di conoscenza e superstizione, che hanno portato molti a credere in questi eventi della natura, come se fossero castighi di Dio.

E’ vero che la Bibbia parla dei disastri e delle calamità, come di un “segno dei tempi”! - (Ap. 6:5-8)

Ma, il fatto che le Scritture profetizzavano l’avvento di catastrofi e disastri provocati dalle forze della natura, non vuol dire che sia Dio a provocarli e a volerli!

Un genitore può prevedere la fine che farà il proprio figlio, vedendo le compagnie malsane che frequenta; anche un meteorologo può prevedere il tempo di domani, sulla base delle correnti e dei venti. Questo non significa però che il genitore o il meteorologo abbiano voluto o siano in qualche modo responsabili di ciò che hanno previsto. Allo stesso modo, Dio può aver determinato in anticipo l’esito di ciò che sarà, a motivo della sua onniscienza. (Is. 46:9,10) Le calamità non sono eventi voluti e causati da Dio, ma sono eventi previsti, annunciati, a motivo della tendenza dell’uomo nelle scelte che fa e nelle opere che compie. Non è onesto quindi, attribuire a Dio responsabilità che invece appartengono all’uomo, il quale, farebbe bene a soppesarne l’entità e la gravità, piuttosto che scaricarle a Dio, quale capro espiatorio!

Qualcuno però, ha sollevato un’opportuna osservazione: la Bibbia non narra di calamità naturali come il diluvio, la pioggia di fuoco e zolfo su Sodoma e Gomorra, o le dieci piaghe d’Egitto? Queste calamità, non accaddero per volere di Dio? Come si fa, dunque, a stabilire i parametri per determinare se quello specifico evento sia opera di Dio o no?

Dobbiamo partire dal presupposto che i castighi summenzionati, descritti nella Bibbia come causati o voluti da Dio, sono sempre preceduti da un avvertimento e da specifiche istruzioni su come salvarsi per sopravvivere all’evento apocalittico. A titolo d’esempio, analizziamo il racconto del diluvio, e vediamo in che modo questa specifica calamità risulti differente rispetto ai disastri comuni, chiamati ‘calamità naturali’:

1. Scopo della calamità punitiva: “… la malvagità degli uomini era grande sulla terra e il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo”. (Gn 6:5)

2. Non fu una punizione indiscriminata: “Noè trovò grazia agli occhi del Signore”. (Gn 6:8)

3. L’evento fu preannunciato: “Ecco, io sto per far venire il diluvio delle acque sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni essere in cui è alito di vita; tutto quello che è sulla terra perirà”. (Gn 6: 17)

4. Dio concesse una via di scampo: “Ma io stabilirò il mio patto con te; tu entrerai nell'arca: tu e i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli con te”. (Gn 6:18)

Anche Gesù evidenziò che, il diluvio e il fuoco piovuto dal cielo su Sodoma e Gomorra, furono eventi voluti e provocati da Dio, per uno scopo ben preciso. Ciò non significa però che ogni cataclisma, ogni disastro o calamità sia da Dio, o che ne sia in qualche modo responsabile!

Se guardassimo con maggior attenzione ai bisogni del pianeta in cui viviamo, sicuramente non avremmo motivo di scomodare Dio, addossandogli responsabilità che non Gli appartengono, e questo sguardo attento ci aiuterebbe a fare azioni concrete per ristabilire questo pianeta, ormai in prognosi riservata.



Pubblicato sulla Rivista InStoria dell'8 Agosto 2008 (XXXIX)

MARIA MONTESSORI : un genio, al servizio dei bambini

MARIA MONTESSORI
Un genio, al servizio dei bambini

di Carlo Siracusa

Maria Montessori fu un’instancabile educatrice, un vero genio al servizio dei bambini, capace di mettere a punto un modello scientifico rivoluzionario, per aiutare i bambini disagiati, i bambini più svantaggiati sotto l’aspetto della socializzazione, i quali, pur non avendo necessariamente problemi di natura mentale o particolari handicap, hanno vissuto in zone o quartieri difficili, con genitori senza lavoro, in condizioni miserevoli, senza alcuna regola e abbandonati a se stessi e alla strada.

Naturalmente, l’ambiente e le condizioni in cui vivevano questi bambini, facevano di loro dei giovani con un futuro difficile e problematico. Per questa ragione, Maria Montessori si dedicò a questo tipo di bambini, applicando metodi innovativi dal punto di vista ludico, didattico, e assolutamente diversi rispetto quelli tradizionali.

Maria Montessori nacque a Chiaravalle (Ancona) nel 1870. A dodici anni seguì i genitori a Roma, dove studiò e si laureò in medicina nel 1896. Fu la prima donna in Italia a esercitare la professione medica, specializzandosi nello studio dei disordini mentali. Cominciò la sua esperienza lavorativa presso una clinica psichiatrica di Roma, esperienza davvero significativa, e che la portò alla realizzazione della sua teoria pedagogica sull’educazione dei soggetti anormali, i quali non hanno solo bisogno di cure e di assistenza, ma anche di un’educazione che modifichi la loro personalità.

Il 6 gennaio 1907, nel quartiere San Lorenzo, uno dei quartieri più poveri e degradati di Roma, la Montessori aprì il suo asilo, la "Casa de bambini", nel quale dovette affrontare problemi pedagogici e didattici estremamente complessi, che richiesero un risanamento civile, sociale ed educativo.

Il metodo educativo fu molto innovativo: il bambino era visto come un individuo laborioso, impegnato attivamente nei suoi lavori; il gioco non doveva essere visto solo come divertimento, ma come impegno, come coinvolgimento nelle sue attività. Non si sarebbe trattato di metodo duro, impositivo, coercitivo, ma di un metodo che tenesse conto del rispetto dei bisogni e degli interessi del bambino, lasciando che, divertendosi, si impegnasse spontaneamente, facendo di ogni cosa una nuova scoperta su cui concentrarsi ed esercitarsi. In tutto questo, seppe anticipare i tempi.

Il metodo educativo utilizzato nella scuola aperta dalla Montessori, intendeva rinnovare il modo di intendere la scuola. I mobili, i tavolini, i seggiolini, le maniglie, gli interruttori: tutto doveva essere a dimensione dell’altezza dei bambini, avendo il compito primario di facilitare l’osservazione e la comprensione dei bisogni dei piccoli. Persino semplici operazioni quotidiane come il pelare le patate, abbottonarsi i vestiti, allacciarsi le scarpe, attaccare un bottone o apparecchiare la tavola, erano considerate materie di apprendimento.

Anche alla lettura veniva data molta importanza, aiutando i bambini a familiarizzare con le lettere dell’alfabeto, costruite con il cartone o in legno, in modo che, unendole tra loro, potessero formare semplici parole. Strumenti di legno colorati, in modo da essere maneggiati dai bambini, erano messi a loro disposizione per imparare a fare i conti e conoscere le varie forme geometriche. Poi avevano un continuo contatto con la natura: facevano il vino in classe dopo aver pigiato l’uva, catalogavano le foglie, uscivano in giardino, così che imparare sembrava sempre un gioco. Con questo metodo veniva insegnato il senso del dovere, la responsabilizzazione, perché le maestre insistevano sulla pulizia, l’ordine, il rispetto dei compagni. Era il materiale stesso che insegnava, e da nessuna parte si vedevano voti, premi o castighi. Il bambino non veniva corretto a parole, ma gli veniva concesso il tempo e l’occasione di verificare da solo se sbagliava.

Ancora oggi, se si va in una scuola che usa il metodo Montessori, si resta colpiti dalla diversità di tutto quello che si vede in quelle classi. Tutto è a misura dei bambini; nelle aule non esistono nemmeno le cattedre per le insegnanti, le quali stanno accanto ai bambini, in piedi o sedute. I bimbi, tranquilli e concentrati, lavorano da soli o in piccoli gruppi, e ognuno sceglie in autonomia cosa fare e per quanto tempo. Lì nessuno dà ordini; è una scuola che asseconda le capacità del bambino, ha molta attenzione per quello che egli è, insegnando anche a non subire.

Possiamo solo immaginare cosa potevano significare idee simili ai primi anni del secolo scorso, quando invece a scuola si usavano metodi correttivi come le botte, colpi di bacchetta o di cintura, per castigare si mandavano i ragazzi dietro la lavagna, in un angolo o dentro stanzini scuri e si premiavano i migliori con coccarde e medaglie. I banchi, allora, erano formati da un blocco unico fissato al suolo. Altro che arredi su misura di bambino!

Ma anche oggi propugnare la libertà di scelta dei ragazzi, difendere la loro individualità e abolire selezione e competizione dalla scuola è sicuramente un atto controcorrente. A volte, quel bambino che manifesta capricci e piange per qualunque cosa, non è altro che il risultato di un’educazione da parte di genitori che lo viziano, lo controllano, intervenendo davanti a ogni piccola difficoltà, anche la più insignificante, risolvendogli tutti i problemi, anziché lasciare che siano loro stessi a superarli.

A motivo della grave situazione economica in cui versava l’Italia all’inizio del Novecento, si preferì adottare il metodo Agazzi, sicuramente meno impegnativo e più economico, rispetto al metodo Montessori, che avrebbe richiesto la costruzione di asili, strutture particolari, con materiale didattico adatto, e un’adeguata formazione degli insegnanti. Nel frattempo, la Montessori si trasferì all’estero, viaggiando in tutto il mondo, facendo importanti esperienze pedagogiche. Fu nel dopoguerra che il metodo e gli asili in stile Montessori si diffusero anche in Italia.

Il suo primo scritto, forse la sua opera più importante, fu pubblicato nel 1909, intitolato: "Il metodo della pedagogia scientifica applicata all’educazione infantile nelle Case dei bambini"; ristampato in un secondo tempo con il titolo: "La scoperta del bambino" (1948).

Il suo metodo prevedeva un utilizzo progressivo e graduale di materiale, attraverso il quale il bambino iniziava a compiere attività come: inserire figure geometriche negli appositi spazi di uguale forma, lettere con le quali comporre le prime parole, esercizi di manualità, materiale per imparare a contare, e altro ancora.

Il metodo scientifico della Montessori, sostenne la necessità di stimolare l’attività e il rapporto col bambino partendo dai suoi bisogni e interessi, e ciò implica, che il bambino deve sentirsi libero, e imparare a divenire autonomo; non bisogna abituarlo alla passività, ma dargli il materiale strutturato in base ai suoi bisogni e alle sue capacità, lasciando scegliere, e facendolo operare liberamente.

La Montessori non approvava il comportamento di quei genitori che rovinano i figli facendoli solo giocare, imponendo costantemente la presenza dell’adulto per risolvere loro ogni problema, anche solo per prendere un oggetto, aprire una porta, controllandoli sempre, e rendendo così i bambini dipendenti, passivi, invece che attivi, liberi e autonomi. Per la Montessori, il gioco non deve essere usato per distrarre il bambino o tenerlo in qualche modo impegnato. Il gioco, invece, deve intendersi come un momento di formazione della personalità del bambino, fondamentale per sviluppare la creatività. Inoltre, perché il bambino raggiunga l’autosufficienza, deve imparare da solo a fare ciò che è potenzialmente in grado di fare, raggiungendo così l’autonomia.

La vita scolastica, inoltre, essendo anche vita di gruppo, deve permettere che i bambini si organizzino tra loro, formino dei gruppi, lavorino in coppia e vengano rispettati dagli adulti, non interferendo dando aiuto, ma lasciando che facciano da soli; il compito dell’insegnante, quindi, deve essere quello di una guida, non quello di risolutore delle difficoltà.

Per questa ragione, necessita che l’insegnante abbia alla base una grande formazione scientifica, psicologica, insieme alla capacità di osservare e scoprire il bambino nel suo mondo naturale, con la sua spontaneità, così da riuscire a cogliere i bisogni, gli interessi, i problemi e le caratteristiche di ciascun bambino. Questo richiede che l’insegnante sia una persona fondamentalmente umile, tollerante, rispettoso, limitandosi a dare gli strumenti didattici adeguati e appropriati all’età, alle esigenze, allo sviluppo, ai bisogni e agli interessi del bambino.

La Montessori paragonava i bambini alle piante: proprio come una pianta, il bambino cerca attraverso le esperienze di portare in luce le proprie potenzialità. Il bambino, perciò, non doveva essere considerato un adulto in miniatura, ma un individuo incompleto, il quale, attraverso la sua attività, avrebbe cercato di raggiungere la completezza. Il bambino deve tutto alle sue capacità di assorbire l’ordine dal mondo esterno, attraverso la comprensione delle relazioni che lo regolano. L’educazione, dunque, doveva permettere lo sviluppo del bambino, favorendo i processi naturali di crescita, sia dal punto di vista biologico che psicologico.

Il programma scolastico avrebbe dovuto rafforzare l’interiorità del bambino, manifesta sia nella curiosità che nel desiderio di conoscere. L’importante compito dell’insegnante non stava nell’imbrigliare, ma nell’aiutare il bambino a fare ordine nelle impressioni e nelle sue molteplici esperienze. Non doveva essere più l’insegnante a proporre qualcosa, ma era l’allievo, la sua crescita, a divenire il centro dell’azione educativa. Il metodo adottato dalla Montessori, fu senz’altro un metodo scientifico innovativo, rivoluzionario e ancora oggi valido.


Pubblicato sulla Rivista InStoria dell'8 Agosto 2008 (XXXIX)


La Riforma Protestante: le ragioni del suo successo

La Riforma Protestante
Le ragioni del suo successo
di Carlo Siracusa

Erano i primi del 500. Il malcontento era generale. La Chiesa primitiva aveva subito una grande evoluzione; il suo spirito aveva cambiato direzione, e si avvertiva il bisogno di riportare la chiesa alla sua condizione spirituale, come alle sue origini.

Ciò che caratterizzava la Chiesa dell’epoca, era ciò per cui si avvertì il bisogno di un cambiamento: la Chiesa era stata trasformata in una sorta di organizzazione, con tanto di gerarchia, intenta ad interessarsi non solo di cose spirituali, ma anche di politica. Il potere monarchico del papa, la sua intromissione nella sfera politica, insieme allo scandaloso nepotismo, alla corruzione e alla mondanità che ne conseguirono, generarono un consenso popolare contro il papa, contro la curia, contro il potere politico-finanziario della Chiesa di Roma, la quale imponeva il versamento di oboli e decime.

Quello che fece scoppiare un vero e proprio scandalo, forse oggetto principale del movimento di protesta, fu l’introduzione della vendita delle indulgenze, una strategia ecclesiastica, voluta da papa Leone X, e creata per far fronte all’immediato bisogno economico in cui versava la Chiesa di Roma. La basilica di San Pietro era rimasta incompleta, e necessitava completarla entro breve tempo, perché divenisse il più grande centro di culto della cristianità. Fu così che, nel 1517, papa Leone X, ideò la predicazione delle indulgenze, quale strumento straordinario per fare entrare fondi nelle casse vaticane.

Secondo la dottrina cattolica, la vendita delle indulgenze serviva, non solo alla remissione della pena da scontare sulla terra, ma anche per l’espiazione dei peccati delle anime del purgatorio.

I meriti dei santi, della Vergine e del Cristo, costituivano il così detto “tesoro” amministrato dal papa, che poteva essere messo a disposizione della gente comune, per consentire loro il conseguimento della salvezza, naturalmente dietro il versamento di una somma di denaro.

Il marchese Alberto di Brandeburgo, guardò con grande interesse speculativo a questo progetto, così, già vescovo di Magdeburgo e di Halberstadt, volle ottenere il titolo arcivescovile anche per la diocesi di Magonza. Essere tre volte vescovo significava dover pagare un’ammenda cospicua, ma questo non costituì ostacolo per lui, in quanto, ricorrendo al finanziamento di una banca, versò a Roma la somma richiesta di 10.000 ducati, convinto che avrebbe recuperato presto tale cifra, con l’attività della vendita delle indulgenze su cui puntò tutto, quasi si trattasse di una vera e propria attività commerciale.

La questione assunse tale impronta, tanto che si arrivò persino alla pubblicazione del listino con gli importi richiesti, a seconda della remissione della pena da espiare. Era stato stabilito un importo diverso, a seconda della classe d’appartenenza: (principi, vescovi, baroni, borghesi, poveri), e sulla base della gravità del peccato da espiare: (stregoneria, sodomia, sacrilegio, …).

“Al suono di ogni monetina che toccava il fondo della cassetta, un’anima veniva liberata dal purgatorio”. Con questo slogan, le folle erano sollecitate a vendere qualunque cosa, purché racimolassero il denaro necessario per liberare i propri defunti dalla condizione del purgatorio, favorendo un più veloce passaggio alle beatitudini del paradiso.

La chiesa del 1500 era più interessata ai problemi terreni, materiali, piuttosto che a quelli spirituali, riuscendo a raggiungere un livello di avarizia e immoralità tali che non s’erano mai visti prima.

A questi problemi di ordine morale, si aggiunse l’esigenza di riformare anche la teologia, la dottrina della chiesa. La Riforma nasce, infatti, per l’urgente bisogno di una ristrutturazione amministrativa, legale, morale e dottrinale della chiesa, con l’obiettivo di disfarsi dell’opera del Medioevo, per tornare ad una versione più pura e più autentica del cristianesimo.

L’aumento del numero di laici istruiti, contribuì a questo risveglio intellettuale, producendo una crescita della critica verso la chiesa, a causa dell’evidente divario tra ciò che essa era e ciò che sarebbe dovuta essere.

La richiesta di una renovatio o reformatio ecclesiae, si ebbe già fin dal XIII secolo, quando in occidente vi fu un vero e proprio magma ribollente di movimenti religiosi che guardavano con speranza al bisogno di riportare la chiesa alla sua funzione puramente spirituale, per correggere così quella difformità della chiesa dal modello apostolico.

Uomini che si distinsero e che divennero veri colpi d’ariete nel sistema ecclesiastico medievale, furono John Wyclif (1312-1384) e Jan Hus (ca.1369-1415). La loro protesta fu un vero dissenso, che diventò per la chiesa vera eresia. Tuttavia, trovò un impressionante consenso popolare, che si fece sempre più crescente, man mano che il loro messaggio si diffondeva.

Benché questi preparassero il terreno, gli inizi della Riforma si ebbero con Martin Lutero, monaco dell’ordine agostiniano, nato ad Eisleben il 10 novembre 1483. Studiò diritto all’università di Erfurt, ma nel luglio 1505 entrò nel convento degli eremiti agostiniani della stessa città, dove compì il suo noviziato; ordinato sacerdote si diede allo studio della teologia, conseguendone il dottorato, di seguito, fu affidato all’insegnamento dell’esegesi biblica nell’università di Wittenberg, città nella quale nel frattempo si era trasferito, ricevendo importanti incarichi.

Ciò che turbò il doctor in biblia, fu di certo la questione delle indulgenze in favore delle anime dei defunti, divenuta una delle forme abituali di finanziamento della chiesa. La vendita delle indulgenze era cominciata al tempo delle crociate, e venivano concesse a coloro che erano disposti a rischiare la vita per una “guerra santa”.

In seguito furono estese alle persone che davano appoggio finanziario alla Chiesa. Ben presto diventarono il mezzo principale per raccogliere fondi con cui costruire chiese, monasteri e ospedali. Per la gente, le indulgenze erano diventate come una polizza assicurativa, capace di annullare ogni castigo per le colpe e i peccati commessi.

Indignato, perché sapeva che l’uomo non può mercanteggiare con Dio, il 31 ottobre del 1517, Lutero scrisse le sue 95 tesi, che affisse alla porta della chiesa del castello di Wittenberg, nelle quali smascherava alcuni insegnamenti errati della chiesa. Le sue tesi furono tradotte dal latino in tedesco e vennero stampate da chi le aveva lette. Esse divennero il principale argomento di conversazione in tutta la Germania.

Il 16 giugno 1520, papa Leone X emanò una bolla che condannava Lutero. Se non si fosse ritrattato, le autorità avrebbero dovuto catturarlo e consegnarlo al papa, il quale gli avrebbe riservato il trattamento destinato agli eretici: il rogo. Come reazione, Lutero bruciò in pubblico la bolla papale contenente la minaccia e pubblicò altre opere che incoraggiavano i principati a riformare la Chiesa anche senza il consenso del papa.

Nel 1521 papa Leone X scomunicò Lutero. Quando questi obiettò di essere stato condannato senza un’udienza imparziale, Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, intimò al riformatore di comparire davanti alla Dieta imperiale di Worms, nella quale si rifiutò di ritrattare, a meno che i suoi oppositori non avessero dimostrato con la Bibbia che era in errore.

Il risultato dell’udienza fu l’editto di Worms, con cui Lutero veniva dichiarato fuorilegge e i suoi scritti vietati. Durante il viaggio di ritorno a Wittenberg, Federico di Sassonia architettò un finto rapimento, per sottrarre Lutero dai suoi nemici. Portato di nascosto nella fortezza di Wartburg, Lutero si fece crescere la barba e assunse una nuova identità, quella di un cavaliere, Junker Jörg.

Fu in quel periodo (era l’autunno del 1522), che trovò il tempo di finire la sua traduzione del Nuovo Testamento. Nel 1534 completò anche la traduzione del Vecchio Testamento, rendendo così disponibile per la prima volta in tedesco la Bibbia completa.

Quando, nel febbraio 1546 a Eisleben, Lutero era sul letto di morte, gli fu chiesto se era ancora convinto di ciò che aveva insegnato. Egli rispose di sì! Benché Lutero sia morto ormai da 462 anni, molti condividono ancora le sue convinzioni.

Riformatori come Martin Lutero (1483-1546), Ulrich Zwingli (1484-1531) e Giovanni Calvino (1509-64) attaccarono la chiesa su vari punti: Lutero sulla vendita delle indulgenze, Zwingli sul celibato ecclesiastico e sul culto di Maria, e Calvino sulla necessità che la chiesa tornasse ai princìpi originali del cristianesimo.

La Riforma determinò la formazione di un nuovo movimento religioso, il protestantesimo, che si diffuse e ottenne larghi consensi in Scandinavia, Svizzera, Inghilterra e Paesi Bassi.

Oggi ha centinaia di milioni di aderenti.



articolo apparso sulla Rivista InStoria, n.10 -Otobbre 2008 (XLI)



Riferimenti bibliografici:

Alister E. Mc Grath, Il pensiero della Riforma, Torino 1999.

Filoramo, Menozzi, Storia del cristianesimo, Bari 2006.